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mercoledì 7 ottobre 2009

Cazzate leghiste


La Lega Nord vuole proibire l'uso in pubblico del burqa. Embè? si dovrebbe dire sentendo un'affermazione così, visto una legge in tal senso esiste già, almeno dal 1975. E' la legge n. 152, che all'art. 5 recita:
È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.
Il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro.
Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza.

L'idea malsana della Lega Nord consiste però nell'introdurre il divieto di indossare "qualsiasi mezzo che non renda visibile l’intero volto, in luogo pubblico o aperto al pubblico, inclusi gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa". Mentre verrebbe cancellata, con il DDL della Lega, la dicitura "senza giustificato motivo". Qual è la novità? Semplice e chiaro: l'impostazione razzista ed antislamica della legge. Tanto che in conferenza stampa (che invito ad ascoltare qui. C'è un siparietto finale niente male, sul carnevale e le feste in maschera) la Lussana (tra le proponenti della nefandezza) dichiara che la modifica del testo del 1975 serve a "far fronte alla minaccia terroristica della jihad islamica". Chiaro no? D'altronde cosa c'è da aspettarsi da un manipolo di fascisti non dichiarati, xenofobi convinti ed incitatori all'odio religioso?
Ribadiamo, ancora una volta, visto che non è mai abbastanza in questo caso, che la religione musulmana non prevede l'uso del burqa, nè del niqab. Lo ha ribadito pochi giorni fa il grande imam Mohammed Said Tantawi dell’università egiziana di Al Azhar, massimo centro dell’islam sunnita. Detto questo, i leghisti, con questa loro proposta non fanno che anteporre la pubblica sicurezza al diritto costituzionale di libertà religiosa. Lo dice chiaramente, ancora Lussana, quando afferma che "tra la tutela della libertà religiosa e la tutela della sicurezza dei cittadini, per noi la priorità è la sicurezza". E' ovvio che se passasse un principio del genere, si creerebbe un precedente pericoloso.
A quel punto qualunque diritto potrebbe essere subordinato ad un supposta sicurezza pubblica, o ad un'altra esigenza del momento, buona per il consenso popolare. Perciò sarebbe il caso di cominciare ad usare il cervello, anzichè continuare a ragionare con la pancia dolente. La proposta leghista è quindi xenofoba e pericolosa, buona solo a cavalcare il razzismo di una massa di ignoranti, che stupidamente credono ad ogni cazzata viene detta loro.
Tanto stupidi gli adepti leghisti, da non accorgersi come una norma del genere non costringe le donne a svestirsi del burqa, né risolverebbe il tanto caro a loro problema di ordine pubblico. Al contrario, un provvedimento di quel tipo costringerebbe quelle stesse donne, già prigioniere di una cultura maschilista, a rimanere chiuse in casa. Una doppia prigione dalla quale sarebbe impossibile liberarsi, rimanendo così emarginate. Mentre ci sarebbe bisogno di mettere in atto proposte positive per una loro reale integrazione, attraverso l'insegnamento della lingua italiana, la scuola, il lavoro e l'affermazione e la reale godibilità dei diritti, compresi quelli di cittadinanza.

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lunedì 21 settembre 2009

Proviamo a ragionare laicamente, sul velo islamico e quello che rappresenta

Ieri è successo un fatto squallido: la europarlamentare Daniela Santanchè è stata aggredita davanti alla Fabbrica del Vapore a Milano. Non sta qui lo squallore, anche se non è un metodo, quello dell'aggressione fisica, per far valere le proprie ragioni. L'indecenza sta nel fatto che, durante una cerimonia solenne per l'Islam, qual è il festaggiamento della fine del Ramadan, una deputata del parlamento europeo, accompagnata da una manipolo di squadristi, abbia tentato di togliere il velo ad alcune donne. Atto gravissimo che mostra un disprezzo per la religione islamica, oltre che profonda ignoranza.

Da estremista laico quale sono (oltre che ateo), non riesco ad accettare un gesto del genere, qualunque sia la motivazione. Figuriamoci se le ragioni sono di origine xenofoba, per quanto quell'origine possa essere nascosta dietro l'ipocrita giustificazione di una emanicpazione femminile limitata alla cultura cattolica, o al meglio occidentale. Provando profonda indignazione per quel gesto infame, mi verrebbe da lanciare epiteti contro la Santanchè ed i suoi scagnozzi. Ma non lo farò, ritenendo più utile provare a ragionare sul velo islamico e quello che rappresenta. Ovviamente senza rivolgermi all'europarlamentare del PDL, visto che, come dice il proverbio, "a lavare la testa all'asino, si perde il tempo, l'acqua ed il sapone".

Diciamo innanzitutto che il burka con la religione islamica non ha niente a che fare, e soprattutto non ha niente a che fare con l'islam l'obbligatorietà del velo. Infatti, in nessun verso il Corano prescrive alle donne di coprirsi il capo. Esiste invece il consiglio, per le mogli del profeta, di coprire i capelli...
«O Profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente clemente!»
Cor., XXXIII:59
...e di non mostrare gli organi della sessualità primaria (ossia la vagina) e secondaria (cioè il seno)...
«E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e coprano le loro pudenda e non mostrino troppo le loro parti belle eccetto ciò che di fuori appare e pongano un velo sui loro seni»
Cor., XXIV:31
Come si vede, il Corano non si scaglia contro le donne che non indossano il velo ed a maggior ragione, non impone alle donne di coprirsi integralmente con il burka, che rimane una usanza tribale, che si sovrappone a quanto narrato in un hadith (l'equivalente degli Atti degli Apostoli, nella religione cattolica). O meglio, il velo che copre anche il volto, lasciando liberi solo gli occhi, è un'estremizzazione di una pratica tribale, che serve a riparare il corpo dalla polvere o dalla sabbia che si alza in talune aree di cultura araba. Ora, domandarsi il motivo per cui le donne di religione islamica indossino il velo, sarebbe un ottimo esercizio di umiltà ed aiuterebbe a scanzare molti pregiudizi.

Il hijab (e cioè il velo), che copre solo i capelli, se liberamente indossato da una donna, non dovrebbe nemmeno colpire l'attenzione di altri. Non c'è nulla di strano in quel velo, che fa parte anche della tradizione occidentale, ancora viva anche in Italia seppure stia scomparendo. Basti pensare a quante signore anziane ancora indossino un fazzoletto scuro in testa. Personalmente mi capita molto spesso di notarlo nel piccolo paese di mia nonna, dove ancora viene usato, soprattutto per andare a messa. Come avviene anche in Occidente in alcuni contesti, nei quali non è consentito di indossare ciò che si più si crede, anche per l'Islam si tende, con il velo, di porre un freno all'esibizione del corpo. E nemmeno di ciò dovremmo meravigliarci. Basti considerare che è vietato in Italia girare a torso nudo ovunque (come stabilito dall'articolo 6, commi 3 e 4 del TULPS). E comunque, anche nella "secolarizzata" Italia, fa parlare la gonna sopra il ginocchio di una insegnante, per la quale si può essere licenziate.

E seppure il velo avesse semplicemente valore di mantenimento della tradizione mussulmana, quale sarebbe il problema? Anche usato semplicemente come simbolo di una identità religiosa, che è propria della persona e non imposta a nessun altro che alla propria coscienza religiosa, quale fastidio può arrecare? Oppure si crede che quella islamica sia una cultura meritevole di minor considerazione e rispetto di altre culture? E quanti laicamente vorrebbero forzare ad una certa emancipazione le donne di religione islamica, considerando il velo solo un'imposizione religiosa o sociale, non stanno forse utilizzando un'imposizione pensando di scansarne un'altra? E cosa a che fare questo con la laicità? Mentre a quanti ostentano una presunta superiorità della religione cattolica, rispetto a quella mussulmana, consiglio di leggere questi versi della prima lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi, che è uno dei testi che compongono il Nuovo testamento:
Ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto, fa disonore al suo capo; ma ogni donna che prega o profetizza senz’avere il capo coperto da un velo, fa disonore al suo capo, perché è lo stesso che se fosse rasa. Perché se la donna non si mette il velo, si faccia anche tagliare i capelli! Ma se è cosa vergognosa per una donna il farsi tagliare i capelli o radere il capo, si metta un velo. Poiché, quanto all’uomo, egli non deve velarsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio; ma la donna è la gloria dell’uomo; perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato a motivo della donna, ma la donna a motivo dell’uomo. Perciò la donna deve, a motivo degli angeli, aver sul capo un segno dell’autorità da cui dipende. [...] Giudicatene voi stessi: E’ egli conveniente che una donna preghi Iddio senz’esser velata? La natura stessa non v’insegna ella che se l’uomo porta la chioma, ciò è per lui un disonore? Mentre se una donna porta la chioma, ciò è per lei un onore; perché la chioma le è data a guisa di velo.
Così, tanto per cominciare a ragionare laicamente...

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giovedì 22 gennaio 2009

11° : vietato manifestare ...

... non è scritto sulle tavole della legge che Dio consegnò a Mosè sul Monte Sinai. L'undicesimo comandamento lo sta scrivendo il ministro Maroni, anche se non direttamente sulle tavole. Che ci vorrebbe martello e scalpello, ma non tanto per la durezza delle pietre, quanto per il merito della proposta che ha un sapore del passato, vecchio ... un po' fascista.
Il ministro Maroni sta infatti lavorando ad una direttiva, che sarà inviata ai prefetti nei prossimi giorni e che impedisca di manifestare vicino a luoghi di culto, centri commerciali, monumenti. E lo stesso ministro ad avere motivato la direttiva, dicendo che sarà emessa «affinchè fatti come quelli avvenuti davanti al Duomo di Milano non abbiano a ripetersi». E con questa premessa non credo sia plausibile ipotizzare che tra le intenzioni di Maroni, ci sia quella di vietare una processione del santo patrono nelle vicinanze di una sinagoga, o di una moschea o anche di una chiesa valdese. Ancor meno si riesce ad immaginare che venga impedito il passaggio della via crucis nelle vicinanze del Colosseo.

Ed allora le ipotesi si riducono sostanzialmente a due: la prima è quella che si tratti di un'iniziativa di facciata. La solita per mantenere alto l'animalesco sentimento xenofobo del popolo celodurista. Un'operazione per accontentare elettori, che spesso tengono insieme l'avversione contro ogni diversità (religiosa, culturale, etnica, fino alle differenze di acconciatura) e l'idolatria del libero mercato. Anche perchè quando una manifestazione occupa spazi pubblici, gli organizzatori sono già costretti a richiedere autorizzazione alla Questura. Questa deciderà sull'autorizzazione a manifestare ed anche nel merito del percorso. Pertanto delle limitazioni a manifestare ovunque si ritiene opportuno, a ragione o a torto esistono già.

La seconda ipotesi è che l'annunciata direttiva di Maroni, volendo impedire manifestazioni nei pressi di luoghi di culto, monumenti e centri commerciali, sia un impedimento di fatto ad esprimere un dissenso, visto che di chiese sono disseminate tutte le italiche città, dal centro storico fino alla periferia. Così come di monumenti che, seppure nelle periferie non pullulino, ci sono i centri commerciali a fare da altare innalzato ad un dio commercio, anche questo, a detta di Maroni, inviolabile.
Un divieto a dissentire verso determinati gruppi. Infatti, come se non bastasse, Maroni ha in mente di fare pagare agli organizzatori una cauzione come garanzia per eventuali danni. Con molta probabilità family-day e simili non avranno bisogno di fornire garanzie. E comunque è facile pensare che queste manifestazioni non abbiano problemi finanziari.
Insomma, i luoghi preposti alle manifestazioni contro le politiche autoritarie, per l'integrazione, per il lavoro e contro la precarietà, ecc., si riducono alle paludi metropolitane, dove l'unica risposta alle rivendicazioni che può essere percepita è l'eco degli slogan.
Ma a conti fatti, quelle due ipotesi sono possibili entrambi. Anzi credo che l'una alimenti l'altra, in un gioco perverso in cui a rimetterci è la democrazia italiana.

Si sta per chiudere il cerchio che questo prepotente governo sta tracciando. Prima scelte autoritarie contro intere cittadinanze; poi l'esercito nelle strade ed i manganelli a garantire le imposizioni del regime; pochi giorni fa l'abrogazione di norme che garantiscono i cittadini contro i soprusi delle forze dell'ordine, ed anche la reintroduzione del reato penale di oltraggio a pubblico ufficiale. Fino a oggi, con il divieto di fatto a manifestare.
Ormai solo l'imbecillità può fare non temere per la democrazia in questo Paese.

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mercoledì 12 novembre 2008

Sul caso di Eluana io, ateo, mi vesto da cattolico e mi domando...

Nel dicembre del 1999, la Corte d'Appello di Milano rifiutò di accogliere la richiesta di un padre sofferente nel vedere logorarsi il corpo senza coscienza della propria figlia. Quel padre era Beppino Englaro e quella ragazza, ormai donna, era sua figlia Eluana.
Da quella prima sentenza, sono passati nove anni e sono state pronunciate nove sentenze. Ed oggi, probabilmente si giungerà all'ultimo atto di questa triste e tragiga vicenda. Speriamo.
In questi nove anni Beppino ed Eluana Englaro hanno subito una violenza inaudita. La dignità di Eluana è stata giudicata in vario modo. Ognuno ha attribuito alla parola dignità il proprio, personale significato. Ed ognuno ha dato alla vita un momento di inizio ed uno di fine. E' chiaro che ogni posizione è legittima, perchè si tratta di una questione tanto sensibile, che ogni posizione risponde per forza alla propria coscienza. Comunque essa si sia formata. Ma, appunto, non può che essere personale.

Ed invece, mentre la Corte di Cassazione a sezioni riunite sta per esprimersi sul caso Englaro, la Chiesa impone di nuovo i suoi dogmi. Nel proclamarsi custode assoluto di una verità universale, la Chiesa cerca di imporre la propria dottrina sul vivere e sul morire. La manipolazione delle coscienza attraverso il controllo dei corpi. E nell'autocelebrazione di se stessa, la Chiesa dimentica l'umanità e si riduce a un rituale che si accanisce contro le coscienze. E così a turno i gerarchi cattolici si scagliano con ferocia contro le azioni, le sensibilità ed anche i sentimenti delle persone. L'ultima uscita in questo senso è del cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la Salute, che ha avuto la brutalità di affermare che sospendere l’idratazione e l’alimentazione in un paziente in stato vegetativo è "una mostruosità disumana e un assassinio". La brutalità e l'oscenità di una tale affermazione, è ancora più forte nel momento in cui è rivolta contro un uomo che chiede che si cessi di accanirsi contro il corpo della figlia, che da anni si consuma senza di lei.

Mi rendo conto che il mio pensiero è il mio punto di vista. Il mio e basta, da altri condiviso e da altri no. E' il mio punto di vista ateo e laico. E' la mia coscienza a parlare, che da tempo ormai ha smesso i panni del cattolico, che gli erano stati imposti dalla cultura diffusa e dominante. In quei panni mi era stato spiegato che la vita appartiene a Dio. Un Dio buono, generoso e misericordioso. E mi era stato spiegato che quando la vita terrena cessa di essere vissuta, ne comincia un'altra da qualche altra parte e che è Dio a scegliere ed a chiamare a sè le anime. Anche se a distanza di tanto tempo quei panni sono un po' logori e mi stanno un po' stretti, voglio tentare di indossarli per un momento e pormi questa domanda: perchè continuare ad accanirsi contro l'anima di Eluana, che vorrebbe lasciare il suo corpo per rispondere alla chiamata a sè di Dio e che senza la scienza e la tecnologia contemporanea, l'avrebbe già fatto molti anni fa? Perchè continuare con questo cattivo, egoista e brutale accanimento, che così evidentemente si oppone alle virtù divine?

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martedì 18 marzo 2008

La Chiesa non schiera ... dovrà essere la politica a schierarsi con la Chiesa

I vescovi italiani sottolineano di non schierarsi con alcun partito politico ma chiedono «agli elettori cattolici, ai candidati cattolici e ai futuri eletti di richiamarsi ai valori fondamentali della Chiesa» e tra questi «la difesa della vita» e la tutela della famiglia tradizionale. Se il voto spesso si orienta sulle «urgenze del quotidiano», per i credenti - ha detto Betori - «le urgenze vanno sempre proiettate su un orizzonte di grandi valori». [fonte www.corriere.it]

Ah ... bene. Meno male che la CEI non si schiera apertamente a fovore di questo o quel partito politico. Certo che in caso contrario sarebbe stata una evidente ingerenza, nella vita politica italiana, da parte dei vescovi.

Ora, i vescovi cattolici, non si schierano più. Dicono di tenersi lontani dalla vita politica italiana. Dicono i vescovi, di non volere interferire nelle scelte che investono la vita pubblica e la sfera privata dei cittadini italiani. Loro, i vescovi, se ne staranno buoni a predicare di cose religiose. E mentre loro penseranno ai valori cattolici, dovranno essere i partiti politici a schierarsi con la CEI. Non dovranno interferire, i politici cattolici, nella definizione della scala dei valori, che sarebbe una grave invadenza della politica nella sfera religiosa. Dovranno, i politici cattolici, richiamarsi ai valori fondamentali della Chiesa ed accettarli, senza discutere.
Soprattutto, senza discutere di famiglia tradizionale, fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna, che attraverso consueti e ben codificati rapporti sessuali e possibilmente senza godere troppo, concepiscono una o più volte. Ed ogni volta, si consideri vita ogni spermatozoo impiantato in un ovulo e lo si porti alla nascita. Non importa se quella che potrà diventare vita autonoma sarà voluta oppure no, se potrà realmente godere di una vita o non ne avrà la possibilità, se sarà frutto di un amore o meno. Qualla che potrà diventare una vita autonoma, dovrà per forza essere accettata all'interno della famiglia tradizionale, che deve per forza essere fondata sul matrimonio.
Ma a questi valori cattolici, i politici italiani dovranno richiamarsi da soli, senza aiuti da parte della Chiesa. Perchè la Chiesa non schiera, altrimenti sarebbe una evidente ingerenza nelle scelte politiche di uno Stato laico. (sic!)


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lunedì 17 marzo 2008

La famiglia secondo le convinzioni di un clericofascita

Chissà, forse Cirrapico, ex(?)fascista dell'ultima ora e candidato nelle file del PdL, se la sarà presa con lo psiconano, che pochi giorni fa aveva detto che il Ciarra è un candidato tra altri mille e che perciò conta come il due di coppe, quando la briscola è bastoni. Oppure no. Certamente il Ciarra è proprio così, clerico-fascista mai pentito, estimatore di Almirante e Benedetto XVI, sua stella polare.
Rimane il fatto che l'editore, imprenditore, pluricondannato, candidato del PdL Ciarrapico, ha rilasciato questa intervista esclusiva concessa a Petrus, quotidiano on line sul pontificato di Benedetto XVI, nella quale definisce ciarpame ogni unione che non sia vincolata da un matrimonio.

La famiglia tradizionale che il clericofascista Ciarrapico probabilmente intende, unica secondo lo stesso ad elevarsi dal ciarpame, sarebbe formata da un uomo ed una donna, uniti in matrimonio davanti ad un altare, con il marito che lavora mentre la donna accudisce la casa ed alleva la prole, rigorosamente numerosa e possibilmente di sesso maschile.
Il fascista Ciarrapico, deve avere dimenticato di staccare qualche pagina dal calendario, non essendosi accorto che le famiglie hanno assunto nel tempo varie forme: ristrette ed allargate, etero ed omosessuali, miste. Una varietà di nuclei familiari che ha probabilmente contribuito ad una crescità culturale, fondata sulla conoscenza ed accettazione delle diversità.
Considero pericolose certe affermazioni, già sentite in altri termini forse con meno volgarità ed aggressività, non credo che si possa pretendere da un personaggio come Ciarrapico, un'apertura verso altre culture, verso diversi modi di intendere la famiglia, men che meno un'accettazione di altri modi di vivere la sessualità diversi da quelli lui considerati. Ma allo stesso tempo, non credo che possano essere accettate lezioni di moralità su questi temi (ma probabilmente nemmeno su altri), da un personaggio condannato in via definitiva per sfruttamento di lavoro minorile.


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lunedì 3 marzo 2008

Secondo il ginecologo Travaglini per la donna abortire è come togliersi una verruca. Ho voglia di vomitare!

Quando riusciremo ad evitare gli sforzi di votimo, nel sentire certe dichiarazioni? Spero mai, perchè mi auguro che all'indecenza di certe affermazioni, nessuno si possa abituare.Comunque, non occorre un grande sforzo per riuscire a provare sdegno, nel leggere dichiarazioni come quelle che il ginecoloco Tarantini, a rilasciato in un'intervista pubblicata oggi su Quotidiano Nazionale.
Secondo Tarantini, «per molte donne abortite è come togliersi una verruca». Sapete quale sarebbe, secondo lo stesso ginecologo, la soluzione a quasta "faciloneria" femminile?

Semplice, fare «pagare l'aborto a chi vi ricorre dalla seconda volta in poi» dice Tarantini. Il ginecologo, però, nonostante il suo quasi disprezzo per la pratica dell'interruzione volontaria di gravidanza, continua comunque a fare aborti, «perchè per fortuna non tutte le donne sono così», dice.
Ancora una volta, le donne sono viste come persone che giocano con la vita e con la morte di altri esseri umani. Ed facile fare due più due, quando Tarantini, alla domanda se un embrione è vita, risponde senza dubbio alcuno: «E' vita, è vita». Ed il risultato è ovvio, anche dopo alcune frasi in riferimento al "non stare attenti" durante i rapporti sessuali. Se l'embrione è vita e la donna vede l'embrione come una verruca, vuole dire che la donna, nel "divertirsi" con il proprio compagno, si gode la vita a prezzo di quella di un bambino. E' questo in sintesi il concetto espresso da Travaglini.
La donna, vista come un essere cinico, che è capace di uccide con facilità. La soluzione proposta è di fare pagare, come fosse un giro di giostra, quello che Tarantini giudica il frutto di una superficialità femminile.
Riuscite a trattenere il vomito?

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giovedì 28 febbraio 2008

Ognuno decida quando far cominciare una nuova vita. Ma alla donna rimanga il diritto di scelta

Ho fatto oggi una piccola carrellata delle testate giornalistiche sul tema dell'aborto ed ho notato che dopo il via libera da parte dell'Aifa alla RU486, una parte della stampa si sta concentrando ancora di più - se possibile - sull'aspetto del diritto alla vita.
Dalla piccola rassegna stampa di oggi, sono stato colpito in particolar modo da due articoli. Uno di questi è a firma di Enrico Garaci, presidente dell'Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sull'Avvenire, con il quale egli sostiene, dalla sua posizione istituzionale, che «non sono possibili mediazioni su valori come quelli che riguardano il significato della parola vita». L'altro articolo è apparso su Il Tirreno, è firmato da Rita Piombanti ed è una lettera aperta a chi vuole abortire, dal titolo "Non si può negare la vita". Il concetto di questa lettera è tutto raccolto in questa frase che l'articolista rivolge ad una donna: «Scusa se userò il verbo "uccidere" che sicuramente non ti è gradito ma lui, tuo figlio, è un essere vivente a tutti gli effetti. Già, vivente».

Ora, si capisce bene che i concetti espressi in quelle frasi, che sono la sintesi di un pensiero che si sta cercando da più parti di divulgare e fare passare, tendono ad indurre nella donna un senso di colpa per un gesto che si vuole paragonare all'omicidio.

Si richiama fortemente un diritto alla vita, che si vuole contrapposto a quello della libera scelta da parte della donna. Il diritto alla vita del nascituro contro il diritto della donna all'autodeterminazione sul proprio corpo. E' ovvio che se si assume per certo che il nascituro è un essere vivente fin dal suo concepimento e per l'aborto di utilizza il termine uccidere, chi pratica l'interruzione volontaria di gravidanza è un'omicida.

Non si può stabilire una volta per sempre e per ognuno, in quale stadio del suo sviluppo una vita possa essere considerata tale. Allora, che ogni persona, secondo la propria etica, cultura, religione o esperienza che si voglia, stabilisca per sè e per nessun altra, cosa considerare vita: se già un embrione, se il feto o il suo seguito.
Ciò che invece rimane inconfutabile, è che nella stessa natura umana è stabilita l'impossibilità dello sviluppo di una possibile nuova vita, senza l'accettazione di essa da parte della donna.
Se è vera come è vera quest'ultima affermazione, significa che non può esserci vita a prescindere dal corpo materno, sul quale la donna deve avere libertà di scelta. Non può esiste quindi sviluppo di una possibile nuova vita senza che la donna non decida che possa esserci. L'embrione nel grembo materno non è perciò una nuova vita, ma la possibilità di una nuova vita, che esiste (la possibilità) solo in quanto legata al corpo della donna la quale, in quanto portatrice di diritti, deve liberamente poter scegliere cosa fare del proprio corpo.

Non si può perciò continuare a recitare il refrain secondo il quale, poichè un embrione si sta sviluppando nel grembo materno, quell'embrione "deve" diventare una nuova vita autonoma.
Non può essere contrapposto al reale e certo diritto della donna all'autodeterminazione, un diritto alla vita che non dipende da nient'altro, ma sussiste in sé e per sé.

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mercoledì 27 febbraio 2008

Via libera alla RU486. Nuovi vergognosi attacchi dagli antiabortisti

L'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha dato il primo via libera alla commercializzazione in Italia della pillola abortiva Ru486. La commissione tecnico-scientifica (Cts) dell'Aifa ha infatti fornito parere favorevole alla richiesta di autorizzazione al commercio, attraverso la procedura di mutuo riconoscimento, che coinvolge anche altri Paesi europei, per la RU486.(fonte corriere.it)

Finalmente e, per dirla con il ginecoloco torinese Silvio Viale, promotore della sperimentazione della RU486, «Finalmente finisce il bluff di chi la chiamava "pesticida umano" o "diserbante chimico"».
Che la RU486 sia un farmaco, è stato spero chiarito una volta per tutte e «sarà utilizzato per gli aborti nell'ambito della legge 194», chiarisce ancora Viale.

Ma credo che saranno comunque prevedibili gli attacchi delle frange antiabortiste.

Credo di poter già immaginare le frasi con le quali, nei confronti di donne che sceglieranno di abortire ed alle quali sarà data possibilità di utilizzare la RU486, saranno lanciate accuse di "avvelenamento dei figli".
Non appaia esagerato. Finora i difensori della vita, scagliati contro il diritto di scelta della donna, hanno già raffigurato quante ricorrevano all'interruzione volontaria di gravidanza, come delle assassine. Hanno finora già individuato le omicide, descritto il movente ed ora vedranno la RU486 come un'arma del delitto. Raffigurazione vomitevole al solo pensiero!

In fondo già il presidente dei deputati dell'UDC, Luca Volontè ha detto testualmente: «Trasformare l’utero femminile in camera a gas è solo una barbarie».
Capite? Non più solo la raffigurazione della donna, incappucciata come un boia, pronta a fare cadere la scure sulla testa di un bambino. L'offessiva antiabortista, si spinge ora fino a rappresentare la donna che ricorre all'aborto come una sorta di gerarca nazista, che spietatamente si appresta ad aprire i rubinetti del gas, per soffocare delle vite umane. Riuscite a pensare a qualcosa di più abominevole?

Mi chiedo quale sia il supposto secondo il quale, una donna che scelga di non fare sviluppare una possibile nuova vita attraverso il proprio corpo (attenzione: non sviluppare una possibile vita ed uccidere sono concetti profodamente differenti), debba per questo essere condannata a soffrire.
Cercare di impedire la promozione "dell'uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza", come stabilito dall'articolo 15 della legge 194, significa voler condannare la donna ad una sofferenza fisica, da aggiungere alla sofferenza psihica. Ma la sofferenza psichica non è visibile, mentre quella fisica può essere messa in bella mostra ed essere da esempio.

Allora forse è questo che si vuole: esibire le condanna alla sofferenza per le donne che interrompono una gravidanza, che si vorrebbero vergognose della loro scelta. Sarebbero esempi per quante si dovessero trovare a dover fare scelte simili, proprio come avviene nei peggiori totalitarismi.
Questa sì, che è una barbarie!

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lunedì 25 febbraio 2008

Una società con etica religiosa è una società escludente

Meravigliato forse non dovrei esserlo, perchè quelle che sto per commentare in questo post, sono frasi che si sentono ripetere da molto tempo. Ma è bene non farci l'abitudine, con il rischio conseguente di ritrovarsi ad accettare passivamente certe affermazioni.
Sono rimasto perciò sbalordito dalle parole di Pier Giorgio Liverani, pubblicate a pagina 33 dell'Avvenire di domenica, nella sua rubrica Controspampa.
Il titolo della rubrica di domenica è la società letale ed è tutto un programma di quanto Liverani ha riportato nell'articolo.
C'è poco da interpretare, tanto l'articolo è esplicito e diretto. Riporto testualmente alcuni passaggi.

«In una società laicista l’umanitarismo è un optional: ci si ferma al neminem lædere (non ledere nessuno) dell’antica Roma pagana. In una società cristiana la caritas è l’anima e il fine del vivere insieme. In una laicista vigono, invece, i cosiddetti "diritti civili" (virgolettato nel testo, n.d.r.) (aborto, divorzio, droga, fecondazione artificiale, embrioni come farmaci, omosessualità normalizzata, eutanasia...) e nessuno è tenuto a interessarsi, per esempio, di chi si droga se non per la paura della criminalità. Si capisce allora che in una società laica, come dice in antilingua il citato 'Manifesto' (di bioetica laica, n.d.r.), «la gravidanza può essere interrotta per salvaguardare la salute del nascituro» e, ugualmente, «la salute del nascituro è salvaguardata con la diagnosi preimpianto». Cioè, tradotto in italiano, per guarire il malato basta applicare la salva­guardia laica. Peccato che sia letale.»

In questi passaggi, si vorrebbe evidenziare l'esistenza di una etica religiosa - anzi di più - cristiana, dalla quale non si può prescindere, se non considerando il pericolo di una società egoista. Liverani, vorrebbe affermare che senza un'etica fondata sulla religione cristiana, si andrebbe incontro ad una società atomizzata, dove ognuno pensa per sè, privando la società di regole di convivenza e mancando in questo caso, secondo questa visione, la coesione sociale. Si vorrebbe far derivare da questo ragionamento, almeno per come personalmente lo leggo, che da una società fondata su un'etica laica, si produrrebbe una spinta verso la solitudine, la criminalità, il disagio ed ogni male che l'uomo ha imparato a produrre.
Volendo guardare alle evidenze oggettive, non si riscontrano tracce a sostegno di questa tesi. Basta prendere in considerazione il rapporto del 2005 sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite, dal quale emerge che le società meno religiose sono anche quelle dove le stime su aspettativa di vita, livello di istruzione, guadagno pro capite, uguaglianza tra i sessi, tasso di omicidi e mortalità infantile, sono migliori. Mentre sono società saldate sulla religione, quelle delle 50 nazioni oggi classificate nei posti più bassi dalle Nazioni Unite in termini di sviluppo umano. sarebbe da indagare quale sia l'effetto e quale la causa, è vero. Ma tanto basta per evidenziare quanto povera di fondamenti oggettivi sia la tesi di Liverani.

Ma volendo rimanere sull'aspetto etico, io credo che regole di vita e di convivenza quali: rispetto, onestà, giustizia, solidarietà, siano insite nella natura umana. Nessuno approva naturalmente l'omicidio, come nessuno accetta il furto o considera giusta la povertà.
Penso di poter dire anche, che un'etica fondata sulla religione, costringe chi la segue a comportamenti obbligati da specifici precetti, basati su dogmi che difficilmente potranno essere soggetti a cambiamenti. La staticità a cui sarebbe obbligata un'etica cattolica, non consentirebbe un adeguamento della stessa ai mutamenti costanti a cui è naturalmente soggetta la società, rivelandosi così, l'etica religiosa, indaguata a guidare i comportamenti sociali.
Quanto sopra contrariamente a quanto avviene invece, per una società che fonda la sua etica su basi laiche, dove l'individuo costruisce liberamente i propri comportamenti, anche sulla base dei cambiamenti sociali. Perciò il singolo si rapporta dinamicamente con la società in cui vive e guarda agli altri modelli sociali, come esperienze con le quali confrontarsi sullo stesso piano, senza presunzioni di superiorità dettate da dogmi irremovibili.

Una società cristiana sarebbe costretta a muoversi entro criteri ben definiti dall'etica religiosa, assunti a verità assolute e che perciò si vorrebbero imposti anche a chi quei criteri non condivide, realizzando di conseguenza una società escludente.

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