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lunedì 9 marzo 2009

Ecco la lavatrice cattolica, che emancipa le donne del mondo (sic!)

La vera emancipazione della donna? Secondo l'Osservatore Romano, non dover lavare i panni a mano. Donne di tutto il mondo, rendete grazie a Jacob Christian Schäffern di Ratisbona, teologo che nel 1767, tra un dogma e la lettura di una parabola, inventò la prima rudimentale macchina per lavare. Grazie alla lavatrice, le donne possono finalmente avere un po' di tempo da dedicare al the con le amiche ed ai biscotti per i bambini. Basta mettere un po' di detersivo nel contenitore ed avviare la macchina, e poi una donna può anche permettersi di rammendare i calzini del marito. Brava donna, ovviamente casalinga.

Chissà se l'importante svolta di emancipazione data dalla lavatrice, ha avuto effetti anche tra le mura delle cosiddette "Case Magdalene", conventi cattolici dove venivano rinchiuse donne e bambine, che avevano commesso peccati contro la moralità. Colpevoli di aver guardato un ragazzo, di aver subito violenza, di aver partorito fuori dal matrimonio, circa trentamila donne sono state rinchiuse in lager, costrette a lavare i panni a mano, con la soda e il sale. Per 15 ore al giorno, tutti i giorni dell'anno, escluso il Natale.

Finalmente emancipata dal lavaggio manuale, la donna versione family-day può meglio governare la casa, accudire il marito e ad egli sottomettersi. Avere, insomma, più tempo da dedicare alle sue funzioni "naturali" di madre e sposa. E di continuare ad essere un'animale da rirpoduzione, proprio come piace alle gerarchie ecclesiastiche. Alle quali non aggrada il venir meno delle donne, al proprio dogmatico compito di contenitori biologici di seme maschile.

Anche si trattasse di una bambina, anche se violentata per anni dal patrigno e da questo messa incinta, una "brava" piccola donna non può esimersi dal proprio compito, e rinunciare così ad essere l'espressione della riproduzione del potere maschile. Perciò su una bambina brasiliana di nove anni, è caduta la scomunica della chiesa cattolica per avere interrotto la gravidanza violentemente subita. Ed insieme alla piccola bambina innocente, la scomunica ha colpito sua madre ed i medici che hanno eseguito l'intervento.

"Viva la lavatrice", dicono dalle parti vaticane. Perchè i panni sporchi del maschio si lavano in casa. Ma quelli delle donne rimangono macchiati.

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martedì 17 febbraio 2009

Se una donna è peccatrice per aver subito violenza

Siamo di nuovo all'emergenza stupri. E siamo di nuovo alla giustizia del pene, quella del solo pugno duro, della sola repressione, della forza. Siamo di nuovo all'emergenza stupri e di nuovo si sentono soluzioni come più controlli, pene più severe, castrazione chimica e chirurgica. Delle non-soluzioni. Sarà certamente vero che sapere di dover scontare una pena, che sia d'ufficio ridotta ad un tempo ridicolo per il reato commesso, non aiuta a desistere dal commettere un reato. Ma nemmeno è così automatico il rapporto tra severità e riduzione del crimine. E comunque, siamo sempre nell'ambito dell'agire a violenza già consumata.

Un agire che non guarda alla dignità femminile da garantire, ma si occupa solo del reato. E le stesse soluzioni (che tali non sono) che è capace di trovare, rispecchiano sempre una mentalità orientata al maschile. Anche la castrazione chimica e addirittura chirurgica, la cui efficacia è da tempo stata smentita, è gridata populisticamente e prima di tutti, da coloro che si vantano di avercelo duro. Che anche se in riferimento alla politica, mostrano così una cultura maschista.

Siamo, per questo, alla giustizia del pene. Con queste non soluzioni, la politica così bassamente virile, si occupa, quindi, ancora dell'uomo, che si è impossessato violentemente di un corpo non suo. Anzichè occuparsi di come prevenire le violenze sulle donne, la politica si occupa di quali muscoli mostrare e contro quale soggetto. Che una volta si chiama magrebino, un'altra volta rumeno, oppure zingaro o ancora disadattato, ma mai e poi mai che sia maschio. Mai e poi mai che il problema sia nel rapporto tra uomo e donna. Mai e poi mai che si parli di come il corpo femminile sia sottoposto a controllo, come espressione maschile di espansione del suo potere.

Dalla famiglia alla scuola, dalle istituzioni alla religione, è moralmente vietato parlare di corpo e di sessualità. Nell'intruglio di maschilismo, machismo, populismo e reazione clericale che caratterizzano la nostra società, la sessualità, il rapporto uomo-donna, fino anche alla conoscenza del proprio corpo, diventano moralmente condannabili. Specie quando è la donna a volersi riappropriare del proprio corpo, per viverlo oltre la considerazione machilista e clericale di macchina riproduttiva. Senza sentirsi peccatrice quando indossa una gonna corta o scopre l'ombelico. Per superare quella cultura di potere maschile, che la vorrebbe colpevole anche quando vittima di uno stupro. Sembra un eccesso? Non lo è.

Provate a dare un'occhiata al testo pubblicato in Italia con il titolo "Venere e Imene al tribunale della penitenza", meglio conosciuto come "Manuale dei confessori", scritto nel 1885 da Jean Baptiste Bouvier (vescovo di Le Mans), specificatamente dedicato alle violazioni del sesto comandamento. In quel testo si risponde alla domanda su «ciò che deve fare una donna, oppressa dalla forza, affine di non peccare innanzi a Dio». Si presume pertanto un peccato femminile a causa di una violenza subita, anzichè dello stupratore. Forse perchè, il violentatore può essere caduto nella trappola femminile dell'abbigliamento, dato che le donne, secondo lo stesso testo, «sono sempre molto più degli uomini proclive verso questo genere di peccati e perchè attirando colla loro toeletta gli sguardi degli uomini, offrono ad essi occasione di spirituale rovina».

Non da ora, quindi, che la donna è considerata nel suo essere una peccatrice e come tale non considerata semplice vittima di un crimine brutale come lo stupro, ma provocatrice o al meglio istigatrice della violenza subita. Non è allora, come sempre più spesso si sente dire, per una caduta di valori che le violenze vengono commesse. Ma per il mai sradicato ed il rinnovarsi di pregiudizi tipicamente maschili. Forse per questo le violenze, qaundo consumate tra le mura di case abitate da famiglie unite nel sacro vincolo matrimoniale, rimangono nascoste.

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mercoledì 12 novembre 2008

Sul caso di Eluana io, ateo, mi vesto da cattolico e mi domando...

Nel dicembre del 1999, la Corte d'Appello di Milano rifiutò di accogliere la richiesta di un padre sofferente nel vedere logorarsi il corpo senza coscienza della propria figlia. Quel padre era Beppino Englaro e quella ragazza, ormai donna, era sua figlia Eluana.
Da quella prima sentenza, sono passati nove anni e sono state pronunciate nove sentenze. Ed oggi, probabilmente si giungerà all'ultimo atto di questa triste e tragiga vicenda. Speriamo.
In questi nove anni Beppino ed Eluana Englaro hanno subito una violenza inaudita. La dignità di Eluana è stata giudicata in vario modo. Ognuno ha attribuito alla parola dignità il proprio, personale significato. Ed ognuno ha dato alla vita un momento di inizio ed uno di fine. E' chiaro che ogni posizione è legittima, perchè si tratta di una questione tanto sensibile, che ogni posizione risponde per forza alla propria coscienza. Comunque essa si sia formata. Ma, appunto, non può che essere personale.

Ed invece, mentre la Corte di Cassazione a sezioni riunite sta per esprimersi sul caso Englaro, la Chiesa impone di nuovo i suoi dogmi. Nel proclamarsi custode assoluto di una verità universale, la Chiesa cerca di imporre la propria dottrina sul vivere e sul morire. La manipolazione delle coscienza attraverso il controllo dei corpi. E nell'autocelebrazione di se stessa, la Chiesa dimentica l'umanità e si riduce a un rituale che si accanisce contro le coscienze. E così a turno i gerarchi cattolici si scagliano con ferocia contro le azioni, le sensibilità ed anche i sentimenti delle persone. L'ultima uscita in questo senso è del cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la Salute, che ha avuto la brutalità di affermare che sospendere l’idratazione e l’alimentazione in un paziente in stato vegetativo è "una mostruosità disumana e un assassinio". La brutalità e l'oscenità di una tale affermazione, è ancora più forte nel momento in cui è rivolta contro un uomo che chiede che si cessi di accanirsi contro il corpo della figlia, che da anni si consuma senza di lei.

Mi rendo conto che il mio pensiero è il mio punto di vista. Il mio e basta, da altri condiviso e da altri no. E' il mio punto di vista ateo e laico. E' la mia coscienza a parlare, che da tempo ormai ha smesso i panni del cattolico, che gli erano stati imposti dalla cultura diffusa e dominante. In quei panni mi era stato spiegato che la vita appartiene a Dio. Un Dio buono, generoso e misericordioso. E mi era stato spiegato che quando la vita terrena cessa di essere vissuta, ne comincia un'altra da qualche altra parte e che è Dio a scegliere ed a chiamare a sè le anime. Anche se a distanza di tanto tempo quei panni sono un po' logori e mi stanno un po' stretti, voglio tentare di indossarli per un momento e pormi questa domanda: perchè continuare ad accanirsi contro l'anima di Eluana, che vorrebbe lasciare il suo corpo per rispondere alla chiamata a sè di Dio e che senza la scienza e la tecnologia contemporanea, l'avrebbe già fatto molti anni fa? Perchè continuare con questo cattivo, egoista e brutale accanimento, che così evidentemente si oppone alle virtù divine?

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martedì 23 settembre 2008

Prolusione o pro(IL)lusione?

Più che una prolusione, quella che il presidente della CEI, monsignor Angelo Bagnasco ha tenuto davanti al Consiglio Permanente della CEI, appare una proillusione. Almeno per quanto riguarda il tema del testamento biologico.
In apparente contraddizione con le affermazioni di qualche tempo fa di monsignor Betori, che affermava l'inutilità di una legge che regolasse il testamento biologico, Bagnasco ha detto invece che su questa materia una legge sarebbe utile. A patto - diciamo così - di una necessaria condizione e cioè che la normativa sia in linea con le attese dei vescovi.
Non mi stupisce questa apparente nuova posizione della chiesa. Nel maggio dello scorso anno, mons. Betori affermava:
"Come vescovi italiani non riteniamo necessaria una legislazione specifica sul Testamento Biologico. La legislazione attuale infatti e' capace di garantire un dialogo tra medico e paziente in merito a queste tematiche. Con una legge ad hoc potrebbe esserci invece il rischio di uno scivolamento verso esiti di tipo eutanasico"

Oggi, il presidente della CEI, Angelo Bagnasco auspica
una legge sul fine vita che [...] dia tutte le garanzie sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza.
Quel che in ultima istanza chiede ogni coscienza illuminata, [...] è che [...] non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia.

Come si vede gli "auspici" clericali sono rimasti assolutamente quelli di sempre. Quelli che erano affermati nelle parole di Betori (che a nome della CEI contrastava l'idea di una legge sul testamento biologico), sono identici a quelli pronunciati ora da Bagnasco. Con la pericolosa differenza che oggi i vescovi italiani appaiono di fronte all'opinione pubblica, aperti al confronto con coscienze diverse da quelle da loro espresse.
Ma probabilmente il motivo di questa "apertura" è ancora più pragmatica e lo si legge ancora nelle parole pronunciate da Bagnasco, quando esprime un timore per espressioni della giurisprudenza (in riferimento al caso Englaro)
che avevano inopinatamente aperto la strada all’interruzione legalizzata del nutrimento vitale.

Quindi, meglio una legge subordinata alla volontà ecclesiastica, che affidarsi di volta in volta ai giudizi dei tribunali, con il rischio che questi si esprimano secondo criteri di laicità.
Ma una legge sul testamento biologico emanata nel senso affermato da Bagnasco, sarebbe una legge che non permetterebbe, nella pratica, di testamentare le reali volontà del paziente. Le possibilità per coloro che vorrebbero fare testamento biologico sarebbero tanto limitate, da impedire per legge l'autodeterminazione di ogni individuo.
Questo è l'altro punto essenziale del discorso del presidente della CEI: affermare nuovamente ed in un contesto di apparente apertura alle istanze laiche, che la vita non appartiene alle persone in carne, ossa e mente. Si ripropone di nuovo il dogma (che si vorrebbe universalmente accettato) che la vita appartiene a Dio e perciò rimane per noi indisponibile. Ed a questo principio si vorrebbe che fosse subordinata l'auspicata legge.
Nonostante la (pro)illusione che si è tentata di fare passare con il discorso di mosignor Bagnasco tenuta al Consiglio Permanente della CEI, l'ipotesi dentro la quale si muovono le gerarchie cattoliche è sempre la stessa: il controllo dei corpi, come mezzo attraverso il quale veicolare le coscienze.

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martedì 18 marzo 2008

La Chiesa non schiera ... dovrà essere la politica a schierarsi con la Chiesa

I vescovi italiani sottolineano di non schierarsi con alcun partito politico ma chiedono «agli elettori cattolici, ai candidati cattolici e ai futuri eletti di richiamarsi ai valori fondamentali della Chiesa» e tra questi «la difesa della vita» e la tutela della famiglia tradizionale. Se il voto spesso si orienta sulle «urgenze del quotidiano», per i credenti - ha detto Betori - «le urgenze vanno sempre proiettate su un orizzonte di grandi valori». [fonte www.corriere.it]

Ah ... bene. Meno male che la CEI non si schiera apertamente a fovore di questo o quel partito politico. Certo che in caso contrario sarebbe stata una evidente ingerenza, nella vita politica italiana, da parte dei vescovi.

Ora, i vescovi cattolici, non si schierano più. Dicono di tenersi lontani dalla vita politica italiana. Dicono i vescovi, di non volere interferire nelle scelte che investono la vita pubblica e la sfera privata dei cittadini italiani. Loro, i vescovi, se ne staranno buoni a predicare di cose religiose. E mentre loro penseranno ai valori cattolici, dovranno essere i partiti politici a schierarsi con la CEI. Non dovranno interferire, i politici cattolici, nella definizione della scala dei valori, che sarebbe una grave invadenza della politica nella sfera religiosa. Dovranno, i politici cattolici, richiamarsi ai valori fondamentali della Chiesa ed accettarli, senza discutere.
Soprattutto, senza discutere di famiglia tradizionale, fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna, che attraverso consueti e ben codificati rapporti sessuali e possibilmente senza godere troppo, concepiscono una o più volte. Ed ogni volta, si consideri vita ogni spermatozoo impiantato in un ovulo e lo si porti alla nascita. Non importa se quella che potrà diventare vita autonoma sarà voluta oppure no, se potrà realmente godere di una vita o non ne avrà la possibilità, se sarà frutto di un amore o meno. Qualla che potrà diventare una vita autonoma, dovrà per forza essere accettata all'interno della famiglia tradizionale, che deve per forza essere fondata sul matrimonio.
Ma a questi valori cattolici, i politici italiani dovranno richiamarsi da soli, senza aiuti da parte della Chiesa. Perchè la Chiesa non schiera, altrimenti sarebbe una evidente ingerenza nelle scelte politiche di uno Stato laico. (sic!)


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lunedì 17 marzo 2008

La famiglia secondo le convinzioni di un clericofascita

Chissà, forse Cirrapico, ex(?)fascista dell'ultima ora e candidato nelle file del PdL, se la sarà presa con lo psiconano, che pochi giorni fa aveva detto che il Ciarra è un candidato tra altri mille e che perciò conta come il due di coppe, quando la briscola è bastoni. Oppure no. Certamente il Ciarra è proprio così, clerico-fascista mai pentito, estimatore di Almirante e Benedetto XVI, sua stella polare.
Rimane il fatto che l'editore, imprenditore, pluricondannato, candidato del PdL Ciarrapico, ha rilasciato questa intervista esclusiva concessa a Petrus, quotidiano on line sul pontificato di Benedetto XVI, nella quale definisce ciarpame ogni unione che non sia vincolata da un matrimonio.

La famiglia tradizionale che il clericofascista Ciarrapico probabilmente intende, unica secondo lo stesso ad elevarsi dal ciarpame, sarebbe formata da un uomo ed una donna, uniti in matrimonio davanti ad un altare, con il marito che lavora mentre la donna accudisce la casa ed alleva la prole, rigorosamente numerosa e possibilmente di sesso maschile.
Il fascista Ciarrapico, deve avere dimenticato di staccare qualche pagina dal calendario, non essendosi accorto che le famiglie hanno assunto nel tempo varie forme: ristrette ed allargate, etero ed omosessuali, miste. Una varietà di nuclei familiari che ha probabilmente contribuito ad una crescità culturale, fondata sulla conoscenza ed accettazione delle diversità.
Considero pericolose certe affermazioni, già sentite in altri termini forse con meno volgarità ed aggressività, non credo che si possa pretendere da un personaggio come Ciarrapico, un'apertura verso altre culture, verso diversi modi di intendere la famiglia, men che meno un'accettazione di altri modi di vivere la sessualità diversi da quelli lui considerati. Ma allo stesso tempo, non credo che possano essere accettate lezioni di moralità su questi temi (ma probabilmente nemmeno su altri), da un personaggio condannato in via definitiva per sfruttamento di lavoro minorile.


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giovedì 28 febbraio 2008

Ognuno decida quando far cominciare una nuova vita. Ma alla donna rimanga il diritto di scelta

Ho fatto oggi una piccola carrellata delle testate giornalistiche sul tema dell'aborto ed ho notato che dopo il via libera da parte dell'Aifa alla RU486, una parte della stampa si sta concentrando ancora di più - se possibile - sull'aspetto del diritto alla vita.
Dalla piccola rassegna stampa di oggi, sono stato colpito in particolar modo da due articoli. Uno di questi è a firma di Enrico Garaci, presidente dell'Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sull'Avvenire, con il quale egli sostiene, dalla sua posizione istituzionale, che «non sono possibili mediazioni su valori come quelli che riguardano il significato della parola vita». L'altro articolo è apparso su Il Tirreno, è firmato da Rita Piombanti ed è una lettera aperta a chi vuole abortire, dal titolo "Non si può negare la vita". Il concetto di questa lettera è tutto raccolto in questa frase che l'articolista rivolge ad una donna: «Scusa se userò il verbo "uccidere" che sicuramente non ti è gradito ma lui, tuo figlio, è un essere vivente a tutti gli effetti. Già, vivente».

Ora, si capisce bene che i concetti espressi in quelle frasi, che sono la sintesi di un pensiero che si sta cercando da più parti di divulgare e fare passare, tendono ad indurre nella donna un senso di colpa per un gesto che si vuole paragonare all'omicidio.

Si richiama fortemente un diritto alla vita, che si vuole contrapposto a quello della libera scelta da parte della donna. Il diritto alla vita del nascituro contro il diritto della donna all'autodeterminazione sul proprio corpo. E' ovvio che se si assume per certo che il nascituro è un essere vivente fin dal suo concepimento e per l'aborto di utilizza il termine uccidere, chi pratica l'interruzione volontaria di gravidanza è un'omicida.

Non si può stabilire una volta per sempre e per ognuno, in quale stadio del suo sviluppo una vita possa essere considerata tale. Allora, che ogni persona, secondo la propria etica, cultura, religione o esperienza che si voglia, stabilisca per sè e per nessun altra, cosa considerare vita: se già un embrione, se il feto o il suo seguito.
Ciò che invece rimane inconfutabile, è che nella stessa natura umana è stabilita l'impossibilità dello sviluppo di una possibile nuova vita, senza l'accettazione di essa da parte della donna.
Se è vera come è vera quest'ultima affermazione, significa che non può esserci vita a prescindere dal corpo materno, sul quale la donna deve avere libertà di scelta. Non può esiste quindi sviluppo di una possibile nuova vita senza che la donna non decida che possa esserci. L'embrione nel grembo materno non è perciò una nuova vita, ma la possibilità di una nuova vita, che esiste (la possibilità) solo in quanto legata al corpo della donna la quale, in quanto portatrice di diritti, deve liberamente poter scegliere cosa fare del proprio corpo.

Non si può perciò continuare a recitare il refrain secondo il quale, poichè un embrione si sta sviluppando nel grembo materno, quell'embrione "deve" diventare una nuova vita autonoma.
Non può essere contrapposto al reale e certo diritto della donna all'autodeterminazione, un diritto alla vita che non dipende da nient'altro, ma sussiste in sé e per sé.

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mercoledì 27 febbraio 2008

Via libera alla RU486. Nuovi vergognosi attacchi dagli antiabortisti

L'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha dato il primo via libera alla commercializzazione in Italia della pillola abortiva Ru486. La commissione tecnico-scientifica (Cts) dell'Aifa ha infatti fornito parere favorevole alla richiesta di autorizzazione al commercio, attraverso la procedura di mutuo riconoscimento, che coinvolge anche altri Paesi europei, per la RU486.(fonte corriere.it)

Finalmente e, per dirla con il ginecoloco torinese Silvio Viale, promotore della sperimentazione della RU486, «Finalmente finisce il bluff di chi la chiamava "pesticida umano" o "diserbante chimico"».
Che la RU486 sia un farmaco, è stato spero chiarito una volta per tutte e «sarà utilizzato per gli aborti nell'ambito della legge 194», chiarisce ancora Viale.

Ma credo che saranno comunque prevedibili gli attacchi delle frange antiabortiste.

Credo di poter già immaginare le frasi con le quali, nei confronti di donne che sceglieranno di abortire ed alle quali sarà data possibilità di utilizzare la RU486, saranno lanciate accuse di "avvelenamento dei figli".
Non appaia esagerato. Finora i difensori della vita, scagliati contro il diritto di scelta della donna, hanno già raffigurato quante ricorrevano all'interruzione volontaria di gravidanza, come delle assassine. Hanno finora già individuato le omicide, descritto il movente ed ora vedranno la RU486 come un'arma del delitto. Raffigurazione vomitevole al solo pensiero!

In fondo già il presidente dei deputati dell'UDC, Luca Volontè ha detto testualmente: «Trasformare l’utero femminile in camera a gas è solo una barbarie».
Capite? Non più solo la raffigurazione della donna, incappucciata come un boia, pronta a fare cadere la scure sulla testa di un bambino. L'offessiva antiabortista, si spinge ora fino a rappresentare la donna che ricorre all'aborto come una sorta di gerarca nazista, che spietatamente si appresta ad aprire i rubinetti del gas, per soffocare delle vite umane. Riuscite a pensare a qualcosa di più abominevole?

Mi chiedo quale sia il supposto secondo il quale, una donna che scelga di non fare sviluppare una possibile nuova vita attraverso il proprio corpo (attenzione: non sviluppare una possibile vita ed uccidere sono concetti profodamente differenti), debba per questo essere condannata a soffrire.
Cercare di impedire la promozione "dell'uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza", come stabilito dall'articolo 15 della legge 194, significa voler condannare la donna ad una sofferenza fisica, da aggiungere alla sofferenza psihica. Ma la sofferenza psichica non è visibile, mentre quella fisica può essere messa in bella mostra ed essere da esempio.

Allora forse è questo che si vuole: esibire le condanna alla sofferenza per le donne che interrompono una gravidanza, che si vorrebbero vergognose della loro scelta. Sarebbero esempi per quante si dovessero trovare a dover fare scelte simili, proprio come avviene nei peggiori totalitarismi.
Questa sì, che è una barbarie!

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lunedì 25 febbraio 2008

Una società con etica religiosa è una società escludente

Meravigliato forse non dovrei esserlo, perchè quelle che sto per commentare in questo post, sono frasi che si sentono ripetere da molto tempo. Ma è bene non farci l'abitudine, con il rischio conseguente di ritrovarsi ad accettare passivamente certe affermazioni.
Sono rimasto perciò sbalordito dalle parole di Pier Giorgio Liverani, pubblicate a pagina 33 dell'Avvenire di domenica, nella sua rubrica Controspampa.
Il titolo della rubrica di domenica è la società letale ed è tutto un programma di quanto Liverani ha riportato nell'articolo.
C'è poco da interpretare, tanto l'articolo è esplicito e diretto. Riporto testualmente alcuni passaggi.

«In una società laicista l’umanitarismo è un optional: ci si ferma al neminem lædere (non ledere nessuno) dell’antica Roma pagana. In una società cristiana la caritas è l’anima e il fine del vivere insieme. In una laicista vigono, invece, i cosiddetti "diritti civili" (virgolettato nel testo, n.d.r.) (aborto, divorzio, droga, fecondazione artificiale, embrioni come farmaci, omosessualità normalizzata, eutanasia...) e nessuno è tenuto a interessarsi, per esempio, di chi si droga se non per la paura della criminalità. Si capisce allora che in una società laica, come dice in antilingua il citato 'Manifesto' (di bioetica laica, n.d.r.), «la gravidanza può essere interrotta per salvaguardare la salute del nascituro» e, ugualmente, «la salute del nascituro è salvaguardata con la diagnosi preimpianto». Cioè, tradotto in italiano, per guarire il malato basta applicare la salva­guardia laica. Peccato che sia letale.»

In questi passaggi, si vorrebbe evidenziare l'esistenza di una etica religiosa - anzi di più - cristiana, dalla quale non si può prescindere, se non considerando il pericolo di una società egoista. Liverani, vorrebbe affermare che senza un'etica fondata sulla religione cristiana, si andrebbe incontro ad una società atomizzata, dove ognuno pensa per sè, privando la società di regole di convivenza e mancando in questo caso, secondo questa visione, la coesione sociale. Si vorrebbe far derivare da questo ragionamento, almeno per come personalmente lo leggo, che da una società fondata su un'etica laica, si produrrebbe una spinta verso la solitudine, la criminalità, il disagio ed ogni male che l'uomo ha imparato a produrre.
Volendo guardare alle evidenze oggettive, non si riscontrano tracce a sostegno di questa tesi. Basta prendere in considerazione il rapporto del 2005 sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite, dal quale emerge che le società meno religiose sono anche quelle dove le stime su aspettativa di vita, livello di istruzione, guadagno pro capite, uguaglianza tra i sessi, tasso di omicidi e mortalità infantile, sono migliori. Mentre sono società saldate sulla religione, quelle delle 50 nazioni oggi classificate nei posti più bassi dalle Nazioni Unite in termini di sviluppo umano. sarebbe da indagare quale sia l'effetto e quale la causa, è vero. Ma tanto basta per evidenziare quanto povera di fondamenti oggettivi sia la tesi di Liverani.

Ma volendo rimanere sull'aspetto etico, io credo che regole di vita e di convivenza quali: rispetto, onestà, giustizia, solidarietà, siano insite nella natura umana. Nessuno approva naturalmente l'omicidio, come nessuno accetta il furto o considera giusta la povertà.
Penso di poter dire anche, che un'etica fondata sulla religione, costringe chi la segue a comportamenti obbligati da specifici precetti, basati su dogmi che difficilmente potranno essere soggetti a cambiamenti. La staticità a cui sarebbe obbligata un'etica cattolica, non consentirebbe un adeguamento della stessa ai mutamenti costanti a cui è naturalmente soggetta la società, rivelandosi così, l'etica religiosa, indaguata a guidare i comportamenti sociali.
Quanto sopra contrariamente a quanto avviene invece, per una società che fonda la sua etica su basi laiche, dove l'individuo costruisce liberamente i propri comportamenti, anche sulla base dei cambiamenti sociali. Perciò il singolo si rapporta dinamicamente con la società in cui vive e guarda agli altri modelli sociali, come esperienze con le quali confrontarsi sullo stesso piano, senza presunzioni di superiorità dettate da dogmi irremovibili.

Una società cristiana sarebbe costretta a muoversi entro criteri ben definiti dall'etica religiosa, assunti a verità assolute e che perciò si vorrebbero imposti anche a chi quei criteri non condivide, realizzando di conseguenza una società escludente.

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mercoledì 20 febbraio 2008

Medici obiettori: è ora di dire basta!

Più il dibattito sull'aborto va avanti, più mi accorgo di quanto quella parte di opinione antiabortista, spesso cattolica ed a volte atea devota, ipocritamente si ponga a difesa del presunto diritto di obiezione di coscienza dei medici.
Tale possibilità, oggi concessa ai medici, mette in chiara difficoltà le donne che per un motivo o per un altro, decidono di abortire. Tale libertà concessa ai medici, di fatto limita la possibilità per le donne, di poter pienamente e liberamente disporre del proprio corpo e di scegliere se vivere una maternità.
E' conosciuta ed è scandalosa l'alta percentuale di medici obiettori presenti nelle strutture sanitarie, che a volte addirittura raggiunge il 100%, obbligando le donne, quando non hanno la possibilità di recarsi in altra struttura, perchè magari troppo lontana e/o economicamente non accessibile, a ricorrere a metodi abortivi pericolosi per la loro stessa vita.

La normativa attuale consente al medico di proclamarsi obiettore di coscienza e di praticare questa scelta. Ma le stesse norme, obbligano le strutture sanitarie a garantire la pratica dell'interruzione di gravidanza. Quest'ultima parte è ovviamente spesso disattesa, ma in pochi ne parlano.
Per quanto mi riguarda, io credo che la professione medica è incompatibile con l'obiezione di coscienza. Se si pensa di dover obiettare contro obblighi professionali, semplicemente deve scegliere di praticare un'altra professione.
Io stesso sono stato e sono un obiettore di coscienza, non dal punto di vista medico, ma da quello militare. La mia coscienza obietta contro l'uso delle armi e perciò ho fatto servizio civile. Ho esercitato il mio diritto all'obiezione di coscienza, ma insieme ad esso ho rinunciato (volentieri, volente ed in coscienza) alla possibilità di praticare una qualunque professione che preveda l'utilizzo di armi.
Stessa cosa credo debba essere per chi obietta contro degli obblighi professionali. Contestualmente all'obiezione nei confronti di determinati obblighi, si rinuncia all'esercizio della specifica professione.Altrimenti, chi accetta che ad un medico cattolico o ateo devoto, nonostante gli obblighi impostogli dalla professione, debba essere garantito il diritto all'obiezione di coscienza e per questo possa rifiutare di praticare un intervento di interruzione di gravidanza, dovrebbe accettare allo stesso modo altri ipotetici casi analoghi. Non credo che tra quanti ritengono che l'obiezione di coscienza di un medico debba essere garantita, continuerebbero a pensarla allo stesso modo se, trovandosi malauguratamente di fronte alla necessità di una trasfusione, questa gli venisse negata da un medico testimone di Geova. Non oso immaginare la reazione di una persona che abbia bisogno di un itervento urgente, ma si trovasse nell'impossibilità di essere operato perchè il medico di turno è musulmano ed in coscienza di fede non può intervenire su una persona di sesso opposto.
Onestamente non credo che in casi come quelli descritti sopra, ci troveremmo di fronte alla stessa nutrita schiera di difensori dell'obiezione di coscienza medica.

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martedì 19 febbraio 2008

Anche Maria ha potuto scegliere sulla propria maternità

Sollecitato da una prima pagina del quotidiano "Liberazione", nella quale era raffigurata l'Annunciazione di Da Vinci (la stessa che ho riportato qui sopra), ho voluto provare a riflettere sull'importanza della volontà della donna, sul portare avanti una gravidanza, anche dal punto di vista cattolico.
Da ateo quale sono, sono già pienamente convinto che alla donna, debba essere assolutamente riconosciuto il diritto di poter liberamente disporre del proprio corpo. Un diritto che non può essere limitato per il fatto di possedere un utero. La dignità della donna, non può essere sottomessa al supposto diritto di un embrione.
Ma appunto, ho pensato di poter facilmente ragionare in questi termini, per il fatto che non credo nell'esistenza di un dio.

La curiosità e la voglia di conoscere e di confrontarmi, mi hanno portato perciò a leggere ed a capirne il significato, di alcuni passi del Vangelo di Luca. Nella lettura mi sono aiutato con la lettura dell'interpretazione del significato degli stessi passi, dato da studiosi cattolici, riscontrabili anche nel web.
Quello che viene fuori, mi pare, è che in materia di volontà della donna sulla gravidanza, il Vaticano assuma una posizione diversa rispetto a quanto descritto dal Vangelo di Luca.

Nell'annunciazione del Vangelo secondo Luca, l'angelo Gabriele si rivolge a Maria dicendo: "Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te". Con quel rallegrati Dio, attraverso l'angelo, invita Maria a gioire per la maternità che l'aspetta. Era richiesta a Maria una disposizione essenziale per la cooperazione con Dio nell'opera che si stava compiendo. Senza una vera gioia personale di Maria, non avrebbe potuto essere compiuta l'opera divina, cioè non avrebbe potuto Maria essere madre del figlio di Dio.
Dio ha chiesto a Maria il suo consenso per portare a termine il proprio disegno e questa era libera di poter sciegliere. Non una costrizione quindi, alla volontà divina, per cui non avrebbe avuto senso l'invito a rallegrarsi rivoltole dall'angelo Gabriele. Senza il consenso di Maria, l'incarnazione di Dio non avrebbe potuto essereci.
La stessa risposta di Maria "Avvenga per me come tu hai detto", sottintende non soltanto una volontà della donna conforme al volere divino, ma il desiderio di perseguire la volontà divina, che è poi il desiderio e la volontà di portare in grembo e dare alla luce il figlio di Dio.

Se persino Dio si è inchinato alla volontà di una donna, di portare in grembo e dare alla luce il proprio figlio, affinchè si potesse realizzare un disegno divino che avrebbe coinvolto tutta l'umanità, che possono uomini in carne ed ossa, in nome di Dio, essere tanto presuntuosi da limitare la libertà femminile si decidere sul e del proprio corpo?

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