giovedì 24 aprile 2014

"Marte e Venere" di Sandro Botticelli: tra scherzo e simbolo




Un dipinto su tavola di Sandro Botticelli (1445-1510), ora alla National Gallery di Londra:


Venere e Marte sono distesi su un prato, sullo sfondo di siepi di alloro e di mirto, mentre in lontananza il paesaggio è chiuso all'orizzonte da una catena di montagne. 
La dea indossa una di quelle leggiadre vesti bianche, con cui Botticelli usa rivestire le sue figure mitologiche, ma non rinuncia agli ornamenti alla moda nella Firenze del tempo, come il bordo dorato della tunica o le bionde trecce posticce incrociate sul seno e decorate di perle. Sdraiata su un cuscino rosso, assorta nei suoi pensieri, sembra si sia quasi scordata che Marte si è addormentato nudo di fronte a lei. 
Il sonno del dio della guerra deve essere davvero profondo, se non lo svegliano nemmeno i piccoli satiri che giocano scatenati tutt'intorno. 
Dei tre, che lo hanno disarmato, rubandogli la lancia, uno si è infilato in testa l’elmo troppo grande per lui, un altro, invece, cerca invano di svegliarlo, usando come una tromba da suonargli direttamente nell’orecchio, la conchiglia, simbolo di Venere. Un quarto, in primo piano, sta cercando di districarsi dopo aver indossato la corazza, decisamente fuori misura, che Marte ha abbandonato a terra. 
Il dio, malgrado la sua natura violenta e bellicosa, non reagisce nemmeno: dorme sfinito dalle fatiche dell’amore e lascia che le sue armi diventino giocattoli.

Una scena mitologica dipinta su una tavola di formato orizzontale (cm 69x173) e nessun documento che ne parli. Poteva essere un enigma, ma è basato un piccolo dettaglio per scoprirne il significato e la destinazione: le vespe che sciamano intorno al tronco spezzato dell’albero in alto a destra, non sono lì a caso. Rimandano, invece, al cognome dei committenti, i Vespucci, che sfoggiano, appunto, nello stemma di famiglia, sette vespe d’oro in campo rosso.
Siamo negli anni intorno al 1483-84 e Botticelli, appena rientrato da Roma, dove ha lavorato agli affreschi della Sistina, è uno dei pittori più richiesti di Firenze. 
Allegro e spiritoso, come racconta l’amico Agnolo Poliziano, ama gli scherzi, i giochi di parole e le burle. Grazie ai suoi rapporti con la famiglia Medici le commissioni non gli mancano, ma ai Vespucci non vuole dire di no. Sono da tempo suoi vicini di casa, abitano tutti nel quartiere di Ognissanti, dove l’artista ha la sua bottega a pianterreno della casa di famiglia e intrattengono rapporti cordiali, anche se non esenti- come spesso succede- da litigi per i muri di confine. 
I Vespucci si sono rivolti a lui per un’occasione speciale, la celebrazione del matrimonio di un componente della famiglia, e gli hanno richiesto un dipinto da destinare- come usava allora- a decorare un cassone o, più probabilmente, la testata del letto della camera degli sposi.

Per l'occasione, Botticelli ha dato fondo alla sua fantasia e al suo temperamento, immaginando un’iconografia augurale e scherzosa, con i due Dei sopraffatti dall’allegria sfrenata dei piccoli satiri, che- complice l’ambientazione rurale della scena- sostituiscono i più leziosi amorini. 
Ha mescolato, poi, raffinate citazioni letterarie, da Lucrezio a Ovidio, al più raro Luciano di Samosata e colti riferimenti alla dottrina neo-platonica e agli scritti di Marsilio Ficino. E ha creato un'allegoria domestica che più matrimoniale non si potrebbe, con Venere, "dea humanitatis", dea della civiltà e della concordia che vince sulla violenza e sulla discordia simboleggiate da Marte (per l'interpretazione del soggetto qui è il link)
Un dipinto raffinato, condotto con il suo stile elegante, simile a una di quelle "favole" pagane che piacciono tanto alla cerchia di Lorenzo il Magnifico.

Mitologia, armonie classiche, citazioni colte, tutto torna. Eppure, basta un dettaglio per scompigliare le carte. 
Se guardiamo bene, vediamo, che il piccolo satiro seminascosto dalla corazza di Marte tiene stretto in una mano uno strano frutto. Troppo evidente per essere un elemento casuale è stato recentemente identificato con la datura o stramonio, una pianta talmente nota per il suo potere afrodisiaco e allucinogeno da essere comunemente definita "erba delle streghe". 
Un elemento questo che potrebbe indurre i più maliziosi a immaginare che non sia solo la spossatezza amorosa a far dormire Marte così profondamente da renderlo inerme di fronte a Venere. 
Potrebbe, appunto, perché, in realtà l'identificazione è risultata tutt'altro che sicura. 
Insomma, niente allucinogeni: un'ipotesi stuzzicante sembra finita, per così dire, in fumo.
Osservato con più attenzione il verde frutto si è rivelato molto meno suggestivo: in effetti altro non sarebbe che il cosiddetto "cocomero asinino", noto per emanare un odore disgustoso e per essere usato, all’epoca, non come un malizioso afrodisiaco, ma come un più banale (e più volgare) purgante (per le identificazioni del frutto qui è il link)

Ma allora che senso ha quel frutto che il piccolo satiro ci mostra con un fare così allusivo?
Forse è semplicemente uno scherzo che ben si accorda col carattere di un Botticelli burlone, contagiato dall'atmosfera di battute salaci che di solito si accompagna ai festeggiamenti nuziali. Oppure è una presa in giro o un dispetto ai vicini litigiosi... Chissà! 
La questione è aperta: su questo dipinto ci sarà ancora da indagare.





giovedì 17 aprile 2014

Le lacrime dell'angelo: la "Pietà" di Antonello da Messina




Su un ampio sfondo di paesaggio, un angelo in lacrime, sorregge, tenendo tra le mani un lembo del sudario, il corpo di Cristo appena deposto dalla croce. Ed espone al nostro sguardo  tutti segni della sua sofferenza: il volto livido, la bocca semiaperta, le braccia che ricadono pesanti, il sangue che esce dalla ferita al costato. 
L'angelo, oppresso dallo sforzo e da un dolore indicibile, ha le guance rigate di lacrime. 


Un quadro di Antonello da Messina (1430 ca-1479), ora al Museo del Prado di Madrid, uno dei dipinti più belli e intensi sul tema della Pietà
Siamo probabilmente intorno al 1476-78 e, in quegli anni Antonello, dopo aver a lungo viaggiato in Italia, è rientrato a Messina. Ha superato da un po la quarantina, è un artista affermato ed è a capo una bottega, anzi di una piccola impresa familiare, in cui ha coinvolto anche il figlio. Grazie ai suoi collaboratori riesce a star dietro a tutte le commissioni che riceve. 
Finalmente non ha più bisogno di spostarsi per trovare lavoro. Messina è un centro commerciale importante: lì arrivano merci da tutti i porti del Mediterraneo e da lì partono imbarcazioni che possono portare i suoi quadri dappertutto. 
Non sappiamo chi gli richieda il  dipinto con la Pietà, se sia un privato, oppure una chiesa o un convento, e nemmeno da dove gli arrivi la commissione. 
È un periodo, comunque, in cui Antonello torna spesso sul tema della Passione di Cristo: è un soggetto che lo coinvolge e che tratta con una autentica devozione. La stessa devozione che lo spingerà, un paio d'anni dopo, poco prima della morte, a disporre nel suo testamento di essere sepolto con l'abito francescano. 

Ridare verità e forza a unimmagine tante volte rappresentata non è facile e Antonello si impegna con tutta la sua capacità di artista. E usa ogni possibilità di quello stile che lo ha  fatto riconoscere come caposcuola e  in cui ha saputo unire, in una sintesi perfetta, la definizione dello spazio della pittura italiana, al realismo minuto e alla cura dei dettagli dell'arte fiamminga. 
Riduce la scena allessenziale e fa cadere tutta la luce sul corpo di Cristo in primo piano. Accostando il suo volto emaciato al viso più roseo dellangelo, riesce a far convergere lo sguardo sulle lacrime che spiccano purissime sul suo viso. Lacrime così  evidenti da accentuare il pathos della scena e da instaurare con chi guarda un rapporto di commossa partecipazione. 
La composizione con due sole figure, che campeggiano contro un cielo chiarissimo, amplifica il senso doloroso della rappresentazione.
Nello sfondo, unisce simboli  e elementi reali: in basso a destra, i tronchi secchi e i teschi sparsi a terra alludono alla morte, mentre il verde vivace dell'erba e delle foglie degli alberi  prefigura la Resurrezione. 
In alto, invece,  raffigura una veduta di Messina, con un tratto delle mura, la fiancata del Duomo e- sfumato fino a essere appena distinguibile in lontananza- il mare dello stretto: un paesaggio familiare per gli spettatori dell'epoca che rende ancora più vicina e toccante la visione dellepisodio sacro.

Iconografia nordica e influenze di dipinti di analogo soggetto di Giovanni Bellini si mescolano nel tentativo di restituire al meglio le sue sensazioni di uomo di fede di fronte al dramma del sacrificio divino. 
Fino ad arrivare a una rappresentazione di un'emozione così profonda da diventare, per chi crede e per chi non crede, un invito alla riflessione e alla meditazione.





sabato 12 aprile 2014

Lo studiolo di Leonello d'Este a Ferrara: il sogno delle Muse




Nel 1441, quando Leonello d’Este (1407-1450) diventa signore di Ferrara ha trentaquattro anni ed è uno dei tanti figli illegittimi di Niccolò III, talmente numerosi da giustificare il detto popolare "di qua e di là dal Po, son tutti figli di Niccolò". 
Il padre si è assicurato che avesse una buona educazione, facendolo istruire nel mestiere delle armi ma, soprattutto, nello studio delle lettere classiche e assegnandogli, come precettore, un umanista come Guarino Veronese. 
Leonello non lo ha deluso. 
Elegante, raffinato e sempre vestito alla moda, è noto ovunque per la sua erudizione e per il suo amore dell’arte. 
Ha chiamato in città pittori come Piero della Francesca, Andrea Mantenga o Pisanello, intrattiene una fitta corrispondenza con letterati e artisti del calibro di Leon Battista Alberti e colleziona- tra i primi in Italia- dipinti e arazzi fiamminghi. 
Da politico accorto, ha capito che la cultura e la magnificenza possono essere strumenti di governo e che uno stato piccolo come il suo, schiacciato tra lo Stato pontificio e la Repubblica di Venezia, ha bisogno di visibilità per ritagliarsi uno spazio tra le signorie italiane ed europee (di Leonello e della sua "strategia di immagine" ho parlato qui).

Per i suoi momenti di riposo si è fatto  riadattare la palazzina di caccia di Belfiore, costruita alla fine del Trecento poco fuori dalle mura della città. 
Abbastanza lontana per sfuggire alla pesantezza della vita di corte, ma, abbastanza vicina da poterla raggiungere a piedi. Nel parco fa allevare caprioli, cervi e daini e coltivare vigne e alberi da frutto. 
Passa sempre più tempo laggiù, tanto che ha pensato di farsi costruire un piccolo ambiente appartato, dove rifugiarsi con i suoi amati libri, lontano dagli affanni quotidiani. Ma un ambiente che sia anche un luogo di rappresentanza per ricevere i visitatori più illustri e diffondere la sua fama di "princeps civilitatis". 
Sarà questo il suo studiolo, destinato a diventare, in qualche modo, il cuore stesso della corte.
L'atmosfera sarà quella di cui parla lo stesso Leonello in un brano del "De politia literaria" dell'umanista di corte Angelo Decembrio, dedicato alla sistemazione di una biblioteca privata. 
Una stanza silenziosa e raccolta con pochissime suppellettili, dove nell'aria si sentano i profumi delicati del rosmarino, del mirto o del cedro, accompagnati dalle fragranze di rose o di viole. Tende di lino che filtrino la luce delle finestre affacciate sul verde, e il silenzio interrotto solo dagli accordi di una cetra. Negli armadi, qualche libro religioso, qualche romanzo cavalleresco di quelli che Leonello ama tanto e poi, soprattutto, autori classici dai filosofi ai poeti.
Un luogo davvero degno di un principe. 

I lavori dello studiolo hanno inizio nel 1447. In basso è prevista una decorazione lignea, probabilmente intarsiata, con gli armadi per i libri, commissionata a Arduino da Baiso. In alto una serie di dipinti. 
Per le pitture Leonello ha ritrovato in qualche testo classico un soggetto che più adatto non si potrebbe, tratto dalla mitologia e mai più raffigurato dall'antichità. 
Un'assoluta novità per un'epoca, più abituata ai temi cavallereschi o alla raffigurazione ancora medievale delle Arti liberali: in quello spazio incantato le silenziose compagne delle sue letture saranno niente meno che le Muse. 

Trovare il modo di rappresentarle non è facile, ma Leonello sa a chi rivolgersi. Incarica del programma iconografico il suo vecchio precettore, Guarino Veronese, che si mette subito al lavoro. E in una lettera del novembre del 1447, basandosi su un commento medioevale alle "Opere e i giorni"  di Esiodo, gli fornisce tutte le indicazioni necessarie. 
Le Muse di Leonello saranno legate non solo alla musica e alla poesia, ma anche all'agricoltura e alle bonifiche che gli Este hanno intrapreso nei loro territori. 
Dee e contadine diventeranno così, allo stesso tempo, simbolo di cultura e di buon governo. 

Erato (il dipinto è ora alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara), protettrice dei legami coniugali e della poesia erotica, seduta su un trono, sullo sfondo di una campagna ben curata, si sta slacciando il corpetto, mentre tiene in mano un ramo di rose. 
La parte superiore della figura è ancora di impostazione tardo-gotica e contrasta con la forza espressiva del panneggio del manto e del piede calzato di rosso, proteso in scorcio sul gradino del trono. 
Probabilmente qui  si avvicendano due diversi artisti che compaiono nei documenti come "dipintori dello studiolo",  il più tradizionale  Angelo Maccagnino e il pittore di corte Cosmè Tura. 





Urania (conservata anch'essa alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara), con in mano l’astrolabio e lo sguardo rivolto verso il cielo, siede su un ricco trono di marmo policromo, in cui è inserito un libro aperto. 
Nella parte alta dello schienale, la siepe intrecciata e l'unicorno-simbolo di purezza- con il muso chino verso l'acqua, alludono all'attività di bonifica nei territori estensi.








Talia (ora la Museo di Budapest), protettrice della semina e della fertilità, siede su uno sfarzoso trono dorato, decorato da mazzi di candii gigli  e tiene in mano un tralcio d'uva e una rosa. Sulla testa ha una corona di spighe.
Sopra il trono, quattro putti giocano con festoni di pesche e di mele. 
L’autore, l’unico di cui compaia la firma, è il pittore di origine ungherese  Michele Pannonio.







Tersicore (ora al museo Poldi Pezzoli di Milano), la musa della danza, siede su un trono ricoperto da un drappo di velluto ed è abbigliata con calzature rosse e un'elegante veste alla moda del tempo. Tre putti danzano ai suoi piedi, intrecciando nastri trasparenti.
Anche qui, come negli altri dipinti, il punto di vista ribassato conferma una collocazione nella parte alta delle pareti. 









Polimnia (ora alla Gemaldegalerie di Berlino), patrona delle colture agricole, è l'unica che non sieda su un trono. 
È, invece, in piedi, abbigliata con una cuffia e una veste da contadinella, su un parapetto sullo sfondo di una campagna coltivata.
Ha in mano una pala e, sulle spalle una zappa decorata da un tralcio di vite.
Lo stile, sintetico ed essenziale, tiene conto delle novità portate a Ferrara da Piero della Francesca.







Calliope (ora alla National Gallery di Londra) legata all’arte poetica e attribuita a Cosmé Tura (ne ho parlato qui) è una delle immagini più misteriose.
Siede su un trono fantastico decorato di pietre preziose e di bizzarri delfini d'oro dai denti aguzzi e dalle pinne attorcigliate e tiene in mano un ramo di ciliegie.
Tutt'e sei i dipinti sono su tavola e misurano più o meno un metro per settanta.






Queste sei bellissime immagini delle Muse,  le sole che restano  delle nove originarie, sono sparse ora in tutti i musei d'Europa. 
Insieme ai testi letterari e ai documenti d'archivio, sono l'unica testimonianza del progetto immaginato da Leonello e da Guarino Veronese.
Leonello muore prima che i lavori siano finiti, ma lo studiolo viene comunque terminato per volontà del fratello Borso. 
Dopo pochi annidurante la guerra con Venezia del 1484, la stanza viene danneggiata da un incendio. Verrà ancora una volta restaurata dal Duca Ercole, ma, poi, con l'andar del tempo, l'intera palazzina di Belfiore finirà per essere abbandonata, fino alla distruzione negli anni trenta del Seicento.
Tutti gli arredi sono dispersi e di quel luogo incantato non rimane più nulla.

Quello che sopravvive è il mito.
Lo studiolo di Leonello d'Este diventa il simbolo di uno dei momenti più straordinari  del Rinascimento, in cui l'amore per la classicità si lega alla raffinatezza della vita della corte. 
Le Muse, che per merito di Guarino e di Leonello si sono reincarnate nella Ferrara del Quattrocento, rimangono le affascinanti custodi di quel sogno di cultura e di bellezza.




Sulle Muse e sullo studiolo sono stati scritti miriadi di testi. Uno dei più belli e documentati rimane il catalogo della mostra "Le Muse e il principe. Arte di corte nel Rinascimento padano", ed. Panini 1991.



domenica 6 aprile 2014

Un drago al guinzaglio: il "San Giorgio"di Paolo Uccello




Una tela di Paolo Uccello (1397-1475), ora alla National Gallery di Londra: un cavaliere, una giovane principessa, un drago e una storia che sembra una favola. 


Sullo sfondo di un paesaggio ben ordinato, di fronte a un'oscura caverna che sembra quasi fatta di cartapesta, un cavaliere in armatura, su un cavallo bianco bardato di rosso, ha appena colpito all'occhio un drago verde con ali variopinte a metà tra pipistrello e farfalla e due massicce zampe complete di artigli. 
Il drago, malgrado l'espressione bellicosa, si lascia tenere al guinzaglio da una esilissima damina tutta elegante con la sua bella sopraveste rosa e le scarpe rosse a punta. Nel cielo azzurro, dove si intravede ancora uno spicchio di luna, compare, sulla destra, un vorticoso nuvolone nero.

La storia è quella di san Giorgio, tratta da quello straordinario testo medioevale che è la "Legenda aurea" di Jacopo da Varagine. Una raccolta di vite dei Santi così piene  di prodigi e di avventure da rivaleggiare- non fosse per i tanti martiri- con le vicende dei più appassionanti romanzi cavallereschi.
Un drago, dal fiato così venefico da scatenare morte e distruzione, vive in una caverna presso una città della Libia. Gli abitanti terrorizzati, pur di non essere sterminati tutti, decidono di nutrirlo, sacrificandogli giovani estratti a sorte. Alla fine, tocca addirittura alla figlia del re.
Per fortuna si trova a passare da quelle parti un cavaliere, san Giorgio appunto, che, dopo aver ascoltato il racconto della principessa, salta sul suo cavallo, si fa il segno della croce, e dà l'assalto al drago, ferendolo con la lancia. 
Fin qui è storia nota.
Ma, se continuiamo a leggere, ecco un colpo di scena:  San Giorgio non uccide il drago, anzi, prosegue la "Legenda": "dice alla fanciulla: getta la cintura tua attorno al collo del dracone, o figliuola, senza alcuna dubitatione. La qual cosa avendo lei facto seguitavala el dracone, come fosse un agnello mansueto".
Il racconto continua con lo strano trio che arriva in città e con San Giorgio che dichiara di uccidere il drago  a patto che tutta la popolazione si converta al cristianesimo. Segue l'inevitabile battesimo di massa e poi, finalmente, l'uccisione del drago- a quel punto davvero stremato- con un misericordioso colpo di spada.
Il drago al guinzaglio non è, dunque,  uninvenzione di quell'"ingegno sofistico e sottile", che, secondo la definizione di Vasari, era Paolo Uccello. 
Sua è piuttosto l'idea di scegliere di rappresentare non il momento del combattimento, ma quello immediatamente successivo, togliendo alla scena gli elementi più drammatici e violenti.

Siamo intorno al 1470 e Paolo Uccello che ha già più di settant'anni si lamenta nella Portata al Catasto (la dichiarazione dei redditi di allora) di essere vecchio e solo: probabilmente non ce la fa più a gestire una bottega, ma lavora in casa, con l'aiuto del figlio, a dipinti di dimensioni ridotte. 
Quell'uomo timido e mite, secondo Vasari, sembra ormai talmente  "strano e malinconico" da essere diventato quasi "salvatico".
Non si sa chi gli commissioni la tela col San Giorgio, né perché ritorni a raffigurare un soggetto che ha  trattato già due volte (qui e qui). 
Quello che si intuisce è che ha ancora voglia di dipingere e di riaffermare il suo stile, dominato da quella passione per gli studi matematici e prospettici che lo ha accompagnato per tutta la vita. Una passione talmente ossessiva da farne un isolato, sempre assorto in se stesso e con pochi contatti con gli altri.

La "dolce prospettiva" che tanto ama e che continua costantemente a indagare non è, però, quella con un unico punto di fuga, elaborata a Firenze nei primi anni del secolo e che ha rivoluzionato il modo di fare pittura e di vedere il mondo (come qui, per esempio)
Per lui la "prospettiva" significa,  invece, moltiplicare gli scorci e i punti di fuga, trovando soluzioni sempre diverse per collocare le sue figure in uno spazio irreale che obbedisce a regole matematiche proprie e per dare alle sue rappresentazioni lapparenza di una favola senza tempo.
Come nel "San Giorgio" dove l'ambientazione astratta gli consente di scegliere il momento più improbabile del racconto con il drago malefico che si tramuta in un innocuo e mansueto animale domestico trattenuto solo da un laccio di seta. 
Il Santo, senza aureola, diventa un prode cavaliere dall'armatura rilucente, il focoso destriero sembra trasformarsi nel cavallino di legno di una giostra, il paesaggio selvaggio diventa un giardinetto curato con una tale pignoleria da ridurre a forma geometrica ogni aiuola.
Anche la presenza divina- indispensabile in ogni storia religiosa che si rispetti- è appena accennata nel vortice, o meglio, nella spirale perfetta al centro della nube che- proprio sopra la lancia- incombe sul santo. 

I personaggi, dai colori vivaci e irreali, talmente privi di consistenza da non fare nemmeno ombra, sembrano composti della stessa sostanza lieve dei suoi sogni, in un istante sospeso nel tempo e nello spazio: quel vecchio mago solitario ha operato, ancora una volta, il suo incanto e, sotto il suo pennello, la storia di san Giorgio si è trasformata in poesia.





Di Paolo Uccello e delle sue "Battaglie" abbiamo parlato più a lungo qui.

martedì 1 aprile 2014

Il calendario di pietra: aprile



"Dixe Avrile: ch'io ve so ben dire/tutte l'albore ch'io fazo fiurire/ cantare gli oxelini e il dolce dormire/A zovini e a vecchi ch'io allegro lo chore" (Anonimo, Ballata dei Mesi, sec.XIV)


Aprile, il mese del risveglio della natura, quando le giornate si allungano, facendosi sempre più calde e l'aria è già quella della primavera. 
Gli alberi fioriscono, l'erba dei prati diventa più verde e tutto sembra in rigoglio. 
Fin dall'antichità Aprile è il mese legato all'amore, tanto che c'è chi ne fa derivare il nome alla parola greca "aphros", la schiuma, da cui, secondo la mitologia, sarebbe nata la dea Afrodite. Anche se l'ipotesi più probabile è che derivi, invece, dal latino "aperire", aprire, e alluda allo schiudersi dei fiori. 

I fiori, in effetti, sono i protagonisti delle rappresentazioni di Aprile nei calendari scolpiti della prima metà del XIII secolo che, per quest'anno, ho deciso di "sfogliare" a ogni inizio del mese. 
Stavolta nessuna attività agricola: la fatica dei contadini e il duro lavoro nei campi lascia spazio alla gioia della bella stagione.
Ad Arezzo, tra i Mesi della Pieve di Santa Maria Assunta, Aprile è un ragazzo sorridente, vestito con l'abito della festa, con in testa una ghirlanda di fiori, un fiore senza gambo- forse una rosa- nella mano destra e un rametto nella sinistra. Sembra fiero di indossare la sua elegante tunica bicolore rossa e nera, legata alla vita da una cintura. 
Ma, temendo ancora un ultimo colpo di freddo dell'inverno, non ha trascurato di coprirsi col mantello e neppure di calzare le pesanti scarpe adatte alla cattiva stagione. 
Sulla parete di fondo, all'altezza del volto, una rosetta scolpita è lì a testimoniare l'arrivo del bel tempo: 


La stessa rappresentazione semplice e sintetica si ritrova nel ciclo- cronologicamente di poco precedente- del Calendario dei Mesi di Ferrara.
Qui Aprile condivide la formella con lo scapigliato e ispido mese di Marzo, tutto intento a suonare il corno (dell'iconografia di Marzo ne ho parlato qui). 
E, senza nessuna soggezione per lo scorbutico compagno, sembra che, sollevando il piede, accenni perfino a un passo di danza:


Basta poco: un gesto e un sorriso, che sembra addirittura evocare quello di certe sculture arcaiche e chi guarda può immaginare, dietro la scontrosa grazia di quell'adolescente coronato di fiori, tutto l'incanto del mese. 
La primavera è giovane e il clima ancora mutevole, ma il freddo e anche la fame patita nel lungo periodo invernale sono finiti. Ricchi e poveri, aristocratici e contadini possono finalmente avere una pausa dalla durezza della vita di tutti i giorni e rallegrarsi che la natura ricominci, ancora una volta, il suo ciclo. 




La musica per accompagnare l'immagine del Mese di aprile potrebbe essere questa