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domenica 19 ottobre 2014

Eugène Boudin: il "re dei cieli"



A chi passeggia, nel 1869, sul molo di Deauville può capitare di imbattersi in un uomo tarchiato, con un berretto da marinaio, che passa ore intere a dipingere al cavalletto sotto un  grande parasole bianco. 
Molti lo guardano con curiosità: la pittura en plein air, all’epoca, non è, certo, una pratica diffusa. 
Se qualcuno gli chiede il nome, quel pittore risponde di chiamarsi Eugène Boudin.
Chi, poi, vincendo l’imbarazzo, si china a osservare la tela, può veder nascere sotto il suo pennello, un dipinto come questo, attualmente alla Fondazione Thyssen di Madrid: un gruppo di persone che, su una spiaggia, conversano o contemplano il cielo infuocato di un tramonto estivo


È un periodo quello, in cui i  bagni di mare sono diventati alla moda: piccoli paesi, fino ad allora abitati solo da pescatori, si trasformano in raffinati luoghi di villeggiatura con tanto di grandi hotel, casinò e sale da concerto, frequentati da  gentiluomini in  doppiopetto e da dame in crinolina. 
Boudin, approfittando della moda, è riuscito a farsi un nome come pittore di scene balneari.
La gente ama molto le mie piccole dame sulla spiaggia - scrive nel 1863- alcuni pensano che questi soggetti siano un vero filone d’oro". 
A Boudin, però, di guadagnare con i suoi quadri importa fino a un certo punto, la sua passione è un'altra.
In realtà, ciò che vuole è rappresentare- anche in quelle piccole tele mondane- quello che chiama "il fulgore della luce" e raffigurare il cielo in ogni suo aspetto. 
Come in questa "Scena di spiaggia", ora alla National Gallery di Londra:


Nato a Honfleur in Normandia nel 1824, Boudin ha scoperto tardi la sua vocazione di pittore. Dopo aver lavorato come marinaio, ha aperto un negozio di cornici che gli ha consentito di conoscere molti degli artisti che frequentano quei luoghi da Courbet a Corot. 
Poi, per amore della pittura, ha abbandonato tutto per andare a Parigi, dove, anziché frequentare l’Accademia, preferisce copiare, al Louvre, i grandi maestri veneti e olandesi. 
Ma la vita frenetica della città non piace a quest’uomo dalla pelle olivastra e i grandi occhi celesti, che parla lentamente e a bassa voce e  che ai caffè  e alle infinite discussioni sull'arte, tra fumo di sigari e bicchieri di assenzio, preferisce l’intimità della vita familiare. 
Quando può, torna in Normandia a spostare il suo cavalletto da una spiaggia all'altra. 
Per lui dipingere all'aperto è l'unico modo di lavorare: è convinto che "due colpi di pennello a contatto con la natura valgano più di due giorni di lavoro in uno studio". 
A volte, nei suoi giri si porta dietro un ragazzo molto più giovane di lui, un diciassettenne di cui ha intuito le grandi qualità: Claude Monet. 
Tutt'e due vagano con il loro cavalletto, cercando di fissare sulle loro tele quei cieli costantemente cangianti che si riflettono, differenti ad ogni istante, sulla superficie del mare.
In un periodo, in cui il pubblico ama una pittura nitida  e precisa, Boudin, dipinge senza definire le forme e con una tavolozza sempre più chiara ed evanescente, tanto che i suoi quadri hanno spesso l'aria di essere appena abbozzati. 
Piano piano, nei suoi dipinti, abbassa la linea d'orizzonte e diminuisce la dimensione delle figure che  diventano piccoli tocchi di colore in un mare di luce.


Il pubblico è perplesso, gli artisti e i critici d'arte, invece, colgono la profonda novità dei suoi  cieli immensi.  
Camille Corot lo soprannomina "il re dei cieli" e Gustave Courbet, in genere poco tenero con i colleghi, gli scrive scherzosamente: "Dite la verità: voi siete un serafino. Non ci siete che voi a conoscere il cielo
Intanto Boudin per vivere continua a  dipingere paesaggi, marine o vedute di città e a viaggiare per l'Europa, ma, ogni volta che può, ritorna a ritrarre in innumerevoli piccoli schizzi a olio, a pastello o ad acquerello le diverse condizioni del cielo e la  natura instabile e transitoria delle nuvole.


Sono queste le "bellezze meteorologiche" che incantano Charles Baudelaire, fin da quando scopre, durante un soggiorno in Normandia, la pittura di Boudin.  
Il pittore, taciturno e modesto, non potrebbe essere più diverso dal sulfureo e inquieto poeta; tutt'e due, però, condividono lo stesso amore per le nuvole e per la loro capacità di  invitare al sogno o al viaggio.



In una recensione, Baudelaire descrive, come solo lui sa fare, gli studi eseguiti dall'artista: quelli dove ha annotato con la precisione di un marinaio, l'ora, la stagione e le condizioni del tempo, o quelli che sembrano dipinti sotto un impulso improvviso e che riescono a fermare in pittura "queste nuvole dalle forme fantastiche e luminose,...queste immensità verdi e rosa sospese o sovrapposte, queste fornaci spalancate, questi firmamenti di sete nere e violette arrotolati o lacerati...tutte queste profondità, tutti questi splendori, che– continua Baudelaire- danno alla testa come una bevanda inebriante o come l’oppio”.



Boudin si inoltra nell'esplorazione di "queste magie liquide e aeree", con la tenacia e la caparbietà di chi vuole arrivare, come afferma in una delle sue lettere: "a nuotare in pieno cielo, fino alla tenerezza delle nuvole". 
E, in questa  ricerca, giunge  agli estremi limiti della pittura, fino alla soglia dell'astrazione.



Quello che conta per lui è afferrare l’attimo, l’istante  preciso, in cui un riflesso cambia o la luce varia di colore. 
E lo farà per tutta la vita.




Quando, a Parigi, nel 1894, sente che  è arrivato alla fine, chiede di essere portato a Deauville per vedere un'ultima volta il riflesso del cielo e del mare.
Dopo la sua morte, gli impressionisti lo saluteranno come un precursore, Monet come il maestro a cui deve tutto. 
Ma Boudin non intendeva essere un innovatore e nemmeno cercava riconoscimenti.
Quello che, in fondo, aveva sempre desiderato era solo di "poter navigare libero sul mare e inseguire le nuvole con il pennello in mano".







Gli schizzi di Eugène Boudin, di cui ho pubblicato le immagini, sono attualmente conservati al MuMA di Le Havre  (qui è il link).
Una bella documentazione sulla mostra di Boudin, che si è tenuta da marzo a luglio 2013 al Musée Jacqueamart-André è qui.



mercoledì 19 febbraio 2014

Uno sguardo nel cielo di René Magritte



"... il cielo è di tutti gli occhi; di ogni occhio è il cielo intero..." (Gianni Rodari)


"Ceci n’est pas un post/ questo non è un post": potrei dire, citando René Magritte.
E sarebbe vero, perché questo non è un post. O, almeno, non di quelli soliti.

È solo che, per spezzare la pesantezza- non solo meteorologica- di queste giornate, mi è venuta voglia di condividere alcune delle immagini di nuvole che ho trovato un mese fa, preparando una conferenza. E che da allora sono rimaste impigliate nelle rete della memoria.
Sono alcune delle tante nubi che popolano i cieli di René Magritte (di questo straordinario artista, che amo tanto, ho parlato più volte qui)

Un pittore capace, nella sua "Infinita ricognizione", di piazzare  due eleganti signori in bombetta a conversare, passeggiando disinvoltamente in mezzo al cielo:


Oppure, in questa "Corde sensibile", dove una spumosa nuvola bianca è appoggiata su una coppa di cristallo, in grado di mescolare l’accostamento surrealista di oggetti apparentemente incongrui, con l'ingenuità di un bambino che si interroghi sulla natura delle nubi:


Nel "Beau monde", le nuvole che trascorrono nel suo cielo, sembrano diventare le protagoniste, insieme all'immancabile mela, del gran teatro del mondo, collocate come sono su un azzurro palcoscenico e inquadrate da due cortine di un sipario altrettanto azzurro:


Invece, nella "Grande famille" un'immensa colomba, fatta di bianche nuvole, si leva in volo da un mare in burrasca e, con la sua apparizione, pare quasi dissipare l'oscurità di un cielo tempestoso, che già trascolora nel rosa:


Mentre nella "Battaglia delle Argonne", in un’alba rosata, dove ancora persiste una falce di luna, la leggerezza di una soffice nuvola bianca contrasta  con la pesantezza di uno scuro macigno, capace di galleggiare nel cielo con la stessa levità di una nube:


Come al solito, con Magritte ogni interpretazione è valida, ogni associazione di idee è consentita. Abbiamo la libertà di vedere nei suoi dipinti tutto quello che vogliamo. Senza alcuna costrizione.
Basta semplicemente lasciarsi andare e accettare la sensazione di totale straniamento che vuole provocare, da quell'ironico "scardinatore delle convenzioni" che è. 
Il suo scopo è, come sempre, quello di farci osservare la realtà con uno sguardo diverso. 
E con occhi (perché no?) pieni della leggerezza delle nuvole. 

Come in questa ultima immagine, che mi ha fatto venire in mente i versi di un poeta, abituato a guardare il mondo (e il cielo) con la stessa profondità mista a candore di Magritte, Gianni Rodari:

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi,
di ogni occhio è il cielo intero.
È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.
Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.
Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.
Spiegatemi voi dunque,
in prosa o in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.





sabato 25 gennaio 2014

Il cielo in una stanza: le nuvole di Berndnaut Smilde




Chi non ha sognato da bambino di raggiungere le nuvole e di giocarci come fossero aquiloni? Chissà, poi, quanti di noi si sono incantati a guardarle e quanti pittori hanno cercato di ritrarle (ne parlo qui)
Berndnaut Smilde, un giovane artista olandese nato nel 1978, è anche lui un innamorato delle nuvole, ma uno di quelli che i suoi sogni infantili li ha realizzati davvero. Solo che lui con le nuvole non ci gioca, né le dipinge, lui le crea.
E non all'aperto, sul loro sfondo naturale di cielo, ma completamente fuori contesto, addirittura all'interno di stanze chiuse, di gallerie d'arte o di pompose sale con tanto di lampadari e stucchi, come qui:


Ai confini tra arte e esperimento scientifico, Smilde adotta un procedimento che non ha nulla di magico, ma che, anzi, richiede una pianificazione meticolosa, con misurazioni accurate della temperatura, della luce e del grado d'umidità e l'uso di una  complessa macchina del fumo. 
Eppure, quando la nuvola compare, gli spettatori presenti rimangono sbalorditi come per il trucco di un prestigiatore (qui è un video con una delle sue creazioni). 
E sembra che quei lievi ammassi di vapore si adattino misteriosamente agli ambienti per cui sono creati. Come qui, dove la nuvola, quasi fosse un fantasma, sembra appena entrata dalle grandi finestre di un antico castello belga, diventato ospedale e poi abbandonato.


Puntando una luce ora radente ora soffusa, Smilde arriva a ricreare anche l'aspetto delle nubi nei diversi momenti del giorno, dall'alba al tramonto. 
Fino a riprodurre il variare del tempo da quando le nuvole sono più scure e precedono la tempesta a quando- come qui- sembrano illuminate dall'interno dalla luce del sole: 


Le sue nuvole, comunque, non durano mai a lungo: galleggiano per un po' a mezz'aria, salgono verso il soffitto e subito dopo svaniscono. 
Rimangono visibili solo pochi minuti, giusto il tempo per consentirgli di scattare le sue foto. 
E le immagini di quelle stanze vuote, abitate solo da soffici nubi bianche, come questa chiesetta abbandonata in una città olandese, assomigliano a certi quadri surrealisti, capaci di accostare elementi incongrui e di mescolare, nella loro atmosfera di sogno, interno ed esterno, natura e artificio:


"L'idea che avevo era quella di creare un lavoro effimero, che avrebbe potuto esistere solo in foto":- ha spiegato- e mi sono dedicato alle nuvole per la loro natura doppia e inquietante" (qui è il link a una delle sue interviste). 
Tanto da riuscire a mantenere la loro aria di mistero anche quando compaiono all'improvviso dentro un banale magazzino o nell'hangar di un aeroporto, circondate di scaffali e di casse pronte alla spedizione: 


Qualunque sia l'ambiente, Smilde riesce a catturare nelle sue foto tutta la magia di quelle vaporose apparizioni e a trascinarci nell'incanto di quel breve istante in cui un pezzo cielo è rimasto chiuso in una stanza.




Il link al sito di Berndnaut Smilde è qui.
E qui, come colonna sonora, il link al blog di un amico che immagina cosi' la musica delle nuvole.


sabato 18 gennaio 2014

"D'arie e di nubi": gli studi di Antonio Basoli



"I nuvoli si dimostrano alcuna volta ricevere i raggi solari e illuminarsi in modo di dense montagne e alcuna volta i medesimi restare oscurissimi..." (Leonardo da Vinci, De'nuvoli)


Ancora una volta torno a parlare di nuvole e di pittori innamorati di queste incostanti abitanti dei cieli. Dopo le nubi delle coste inglesi di Constable (qui), la nuvola innamorata di Correggio (qui) e l’aereo autoritratto di Mantenga (qui), è la volta delle nuvole dei cieli di Bologna, ritratte in un taccuino di due secoli fa. Non molto diverse da quelle che vedo passare anche oggi dalla mia finestra.

Antonio Basoli (1774-1848) è stato uno dei protagonisti della vita artistica bolognese di inizio Ottocento: scenografo, vedutista, incisore raffinato, illustratore di testi letterari e di repertori tratti dall'antichità, pittore da cavalletto e ricercato decoratore d’interni per una committenza aristocratica e borghese. 
Per tutta la vita si è dedicato, con dedizione ed entusiasmo, all'insegnamento nell'Accademia di Belle Arti di Bologna, come professore di architettura e di ornato, ma non hai mai cessato di disegnare, spinto da un'acuta curiosità per tutto quello che lo circonda.
Uno dei suoi soggetti preferiti è, appunto, Bologna: nelle sue stampe, nei suoi dipinti, nei suoi album di disegni, la ritrae  non solo nei suoi monumenti ma in ogni dettaglio della vita quotidiana, con le sue strade, i suoi portici, le sue botteghe.
Fino a spingersi a indagarne i mutevoli aspetti del cielo.

Un piccolo taccuino (di appena 11x 18 cm) raccoglie i suoi “Studi d'arie e di nubi diverse nelle varie ore del giorno tratte dal vero coi rispettivi colori nel 1815 e colorite nel 1845
Quarantacinque fogli di cieli e di nuvole, numerati e classificati, in ognuno dei quali segna con esattezza la pur minima variazione dei colori, annotando a matita una serie di numeri.
Come nel caldo e dorato tramonto di questo primo foglio.


Nella pagina a fronte di ogni schizzo riporta l'ora delle osservazioni e  per ogni numero, scrive le tinte corrispondenti. Qui, ad esempio, la “gran luce delle nubi un poco più rosse e mezzo gialle” corrisponde al numero 2, il “verde” al numero 7, o il “turchino schietto” al numero 9.

Quando raffigura i tramonti disegna in un altro foglio- sempre dallo stesso punto di vista- anche “l’aria opposta alla calata del sole", come qui, dove definisce una a una tutte le sfumature delle "nuvole che cominciano nell'orizzonte lacca e turchino", fino a degradare in un "celeste chiaro":


Non siamo ancora all'epoca, in cui i pittori vanno per la campagna per dipingere all'aria aperta con tanto di tavolozza e cavalletto. 
Icielo, che Basoli non si stanca mai di osservare, è probabilmente quello che vede dalle finestre di casa sua. Di quella casa, che si è comprato in Borgo Paglia, il più vicino possibile all'Accademia di Belle Arti e dove vive da solo, tra le sue librerie sovraccariche di libri.

Ed è un cielo che rappresenta in tutti i suoi cambiamenti, seguendo il variare del tempo, dai giorni sereni, a quelli più tempestosi, quando- "dopo una pioggia"- la "macchia della nube diventa sempre più scura e color piombo":


O quei cieli puliti e sgombri grazie all'"aria di vento", che fanno risplendere le nubi bianche e rosate "tutte più chiare":


Oppure è un cielo dalle tinte più fredde, quando l'"orizzonte si converte in nebbia", di prima mattina, non appena  comincia a diffondersi la luce:


Gli anni passano e svaniscono veloci come nuvole.
Con l'andare del tempo Basoli si allontana sempre meno volentieri dalla sua amata Bologna, fino a decidere di non spostarsi più.
La città, la casa diventano, poco a poco, tutto il suo mondo, tanto da rifiutare offerte prestigiose di lavori in Italia e all'estero.
Nel 1837, dopo un’aggressione subita per strada, in cui perde la vista di un occhio, rinuncia anche alla sua attività di decoratore per dedicarsi, sempre di più, alla pittura.

Nel chiuso delle sue confortevoli stanze, la sua immaginazione vola per viaggiare lontano: risalgono a questo periodo le sue opere più fantasiose, come gli acquarelli monocromi con le "Vedute panoramiche di tutto il globo", o le invenzioni dell'”Alfabeto pittorico” che gli assicurano la fama anche fuori d'Italia.

Nel 1845 ha da poco compiuto settant'anni ed è un artista noto e rispettato, ma non ha perso né la curiosità, né la voglia di studiare. Anzi è proprio in questo periodo che ricomincia a osservare l'aspetto del cielo e che riprende in mano il taccuino con i disegni di nuvole, colorando- come annota nel frontespizio- gli schizzi che fino ad allora aveva lasciato incompiuti. 
E continua a indagare, oltre la sua finestra, con la minuziosità di un tempo.
È proprio allora che  aggiunge gli ultimi due fogli, cercando, ancora una volta, di riprodurre il variare dei colori  "dell’aria serena nelle ore del tramonto”: 



E, come al solito, osservando anche le sottili sfumature dell'"aria opposta al tramonto", per definire sulla carta il "turchino", il "più cenerino", il "color piombo" o "l'azzurro nebbioso" che vede alternarsi nel cielo:

Due paesaggi essenziali di una sintesi che ricorda le stampe giapponesi. 
Il colore è  più fluido, come se fosse fatto della stessa sostanza dell'aria.
Trent'anni sono passati dai primi fogli d'"aria e di nubi", ma la sua ostinazione nel cercare di ricreare l'aerea levità di quelle tinte che trascolorano incessantemente è rimasta ancora intatta. 
Come se, fissando nei fogli del suo taccuino la mutevolezza  del cielo e delle nuvole, volesse quasi riuscire a fermare, almeno per un attimo, il troppo veloce trascorrere della vita.




Il taccuino con gli studi di nuvole è stato pubblicato in "Basoli dal vero. Ristampa anastatica dei taccuini di Antonio Basoli", Bononia University Press  (collana Anastatiche) 2008.

venerdì 20 aprile 2012

Mantegna: un pittore nelle nuvole





Cercando pittori “innamorati delle nubi”, dopo gli aerei ritratti di Constable e la nuvola amorosa di Correggio, ho fatto un incontro del tutto inaspettato.

Apparentemente niente di più lontano dalla morbida consistenza delle nuvole dello stile di Andrea Mantenga, un artista“che tira più alla pietra, che alla carne viva”, come dice Vasari, e -al pari della Medusa della mitologia- è in grado di trasformare in marmo, roccia o cristallo, ogni elemento dei suoi dipinti.

Eppure Mantegna si incanta a raffigurare, nella sua pittura, le infinite forme che possono assumere le nuvole ed è, addirittura, capace di usare la loro soffice e candida sostanza per firmare il suo capolavoro.
Per scoprire la "sua" misteriosa nuvola, bisogna addentrarsi nella selva di affreschi che coprono le pareti di una piccola stanza del palazzo ducale di Mantova.




È la camera degli sposi, o, meglio, secondo la più corretta definizione dei documenti, la “camera picta”, affrescata Mantegna tra 1465 e 1474.
La sala non ha niente di nuziale, anzi, era destinata alle udienze e ai ricevimenti.
Chi varca la soglia entra dentro uno spazio interamente dipinto, un mondo illusorio creato, come un palcoscenico, per esaltare la gloria dei Gonzaga.
Il soffitto simula una decorazione in stucco con fregi e busti di imperatori e, al centro, si apre un oculo, da cui si intravede l'azzurro del cielo.
Le lunette sono ornate da festoni di foglie e di frutta.
In basso, corre una decorazione con finti intarsi marmorei, mentre, sulle pareti, sontuosi tendaggi dipinti si aprono, come sipari teatrali, su scene della vita di corte.

Il committente è il marchese Ludovico, un politico lungimirante e intelligente che ha saputo trasformare una palude abitata da ranocchi (secondo la malevola descrizione di papa Pio II) in una città moderna, chiamando alla sua corte artisti del calibro di Leon Battista Alberti e, appunto, di Andrea Mantegna.
Per averlo al suo servizio Ludovico non ha badato a spese. Gli ha garantito un ottimo salario, vitto e alloggio e, in più, la promessa di una serie di onoreficenze. Insomma un'offerta di quelle che non si possono rifiutare. Mantegna, ovviamente, l'ha accettata e ora ricambia come meglio non si potrebbe.

Nella parete destra la tenda si apre per rivelare una scena quotidiana.
È come un'istantanea, tanto che sembra che i dignitari di corte non abbiano avuto il tempo di mettersi in posa e che qualcuno stia ancora arrivando, un po' trafelato, dalla porta sulla destra.
E Mantegna li ritrae, così come sono, senza lusinghe o compiacimenti.
Il marchese, in primo piano, tiene un documento tra le mani e si volta verso il suo segretario, mentre il cane preferito è accucciato ai suoi piedi.
Tutti sono elegantemente abbigliati: gli uomini in farsetto e calzebraghe con i colori dei Gonzaga, le donne in ricchi abiti damascati.
Al centro, seduta e imponente, è la moglie di Ludovico, Barbara di Brandeburgo, nipote dell'imperatore Sigismondo, che, con le sue alte parentele, ha dato lustro alla dinastia dei Gonzaga.
Attorno a lei ruota la vita di famiglia. È attorniata dai figli e ha accanto la dama di compagnia favorita, una delle nane, di cui i Gonzaga amano circondarsi, l'unica che guardi verso lo spettatore.


L'altra parete si apre su un paesaggio, ricco di riferimenti classici, con la veduta di una città, che rievoca la Roma. antica. Il marchese, con un seguito di cavalli riccamente bardati, cani, paggi e familiari, va incontro al figlio Francesco,  collocato al centro della scena con un'espressione compunta e soddisfatta. Non nasconde la sua contentezza per la nomina a cardinale che ha appena ricevuto. E, forse, è proprio questa la notizia che il marchese stava leggendo nella scena precedente e per cui aveva convocato tutti i cortigiani: per lui era la conferma dell'influenza e del potere della famiglia.

Cortigiani, cardinali, damigelle, cavalli, cani...ma, finora, nessuna traccia della nuvola misteriosa. Non ci resta che continuare a guardare.
Sopra la porta, in una targa sorretta da putti alati, l'artista, che si definisce  "suus Andrea Mantinia", dedica la sua opera al marchese.
È la consacrazione ufficiale del suo ruolo di pittore di corte. La firma qui c'è, ma non è certo quella che  stavamo cercando.
Comunque, se andiamo avanti e controlliamo anche i dettagli, una sorpresa la troviamo.

Sul pilastro accanto alla porta, ornato da una finta decorazione a stucco, tra tralci e volute, Mantegna ha inserito il suo autoritratto.
Ha scelto di non raffigurarsi in mezzo agli altri  cortigiani e si è rappresentato, invece, a parte, come una sorta di strano fiore, in un gioco scherzoso e allusivo che può equivalere a una firma.

Meno ufficiale e più privata, rispetto a quella della targa dedicatoria, ma non abbastanza misteriosa e, soprattutto, senza alcun legame con le nuvole.



Non c'è che da ricominciare a cercare e, magari, stavolta, alzare la testa e osservare bene l'oculo aperto nel  soffitto con il suo sfondo di un azzurro terso di cielo.


Dalla finta balaustra, che lo circonda, con uno straordinario scorcio prospettico, dame e putti  si sporgono, pericolosamente.

Una conca con una pianta di arancio è in bilico sul bordo e rischia quasi di cadere.

Le giovani donne, accompagnate da una esotica serva nera e da un pavone, sembrano divertirsi a spiare, non viste, quello che succede sotto di loro.

Per curiosare meglio due putti hanno, addirittura, infilato la testa nella balaustra.







Dettagli divertenti e bizzarri, un'atmosfera giocosa: questo sembrerebbe, davvero, il luogo più adatto.
E, in effetti, lo è.
Perché, se si osserva con attenzione, ci si accorge, finalmente, che, proprio qui, tra le nubi, compare il profilo di un uomo.
I lineamenti riprendono quelli dell'autoritratto dipinto da Mantegna, qualche anno prima, nella "Presentazione al tempio", ora a Berlino.

Non c'è dubbio: è proprio lui, che si è nascosto nel posto apparentemente più visibile, al centro della stanza.

E pensare che nessuno, fino a pochi anni fa, lo aveva scoperto.
Di sicuro Mantegna non prevedeva che i moderni strumenti di indagine (foto a luce radente o teleobiettivi) avrebbero rivelato quella sorta di “firma figurata”, che, per soddisfare il suo orgoglio di artista, aveva apposto nella cangiante materia delle nubi.





Dal suo aereo nascondiglio, per secoli, ha contemplato dall'alto quel mondo fittizio che aveva creato per celebrare i Gonzaga.
E là, celato dietro un candido e soffice schermo, forse ha capito che, nell'olimpo della pittura, il potere effimero del principe non conta e che l'unico che valga è quello eterno dell'arte.







L'autoritratto di Mantegna è stato scoperto da un grande studioso, Daniel Arasse, che ne ha parlato ne "Il soggetto del quadro.Saggi d'iconografia analitica"edizioni ETS 2009, pp.67-83, da cui ho tratto notizie e confronti.




mercoledì 7 marzo 2012

"Giove e Io" di Correggio: la nuvola innamorata




Tutto è cominciato con le nuvole di Constable (ne ho parlato qui), perché è guardando i suoi schizzi che mi sono appassionata alla raffigurazione di queste capricciose abitanti del cielo.

Proprio in questi giorni, mi sono messa a caccia dei pittori "innamorati delle nuvole", quelli, cioè, capaci di vedere, appena nascoste sotto la loro morbida superficie, le immagini più sorprendenti: città, castelli, animali, volti umani.
Oggi, cercando nuvole "animate", mi è capitato di imbattermi nella madre, o per meglio dire, nel padre di tutte le nubi.
Niente di meno che Giove, in un dipinto, ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna: "Giove e Io"



Che Giove amasse le donne è noto. Il suo problema era la gelosia della legittima moglie, la temibile Giunone. Non per nulla, però, era il padre degli dei: aveva un'immaginazione senza limiti e il potere di trasformarsi in tutti i modi possibili. Le sue metamorfosi in toro, cigno, aquila o pioggia dorata dimostrano che non arretrava di fronte a nulla, pur di portare a termine le sue conquiste.

La seduzione di Io, ninfa e sacerdotessa di Giunone, aveva richiesto prudenza e fantasia. Per vincere la sua ritrosia e, soprattutto, per non essere colto in flagrante dalla moglie, aveva deciso di celarsi dietro una nuvola, o più precisamente, come racconta Ovidio nelle "Metamorfosi", dietro una fitta nebbia che aveva fatto calare sulla terra.

Anche, il committente del dipinto, Federico II Gonzaga, amava le donne e anche lui doveva nascondersi, non da una moglie, ma dall'occhiuta sorveglianza della madre, Isabella d'Este, che voleva per lui un matrimonio all'altezza delle sue ambizioni.
Si dice che per trovare una sede appartata, dove  celare il suo amore per la bellissima amante, priva di sangue blu e sgradita alla madre, avesse fatto progettare dall'architetto di corte, Giulio Romano, il favoloso palazzo Te, appena fuori del centro di Mantova.

Libero da ogni controllo, in un'atmosfera di segreti, di lusso e di passione amorosa, Federico doveva sentirsi un po' come il signore di un suo Olimpo privato.
Ed è proprio per Palazzo Te che, intorno al 1531, commissiona quattro dipinti con le storie degli "Amori di Giove", destinandoli, probabilmente, a decorare le pareti del suo studiolo.

Come pittore aveva scelto Correggio (1489-1534), all'epoca noto per le sue tenere immagini di Madonne col Bambino e, soprattutto, per i grandi affreschi eseguiti per le cupole della chiesa di san Giovanni Battista e della cattedrale di Parma, vere apoteosi di paffuti angioletti e di morbide nuvole

Correggio era un artista raffinatissimo. Sapeva unire le più diverse influenze, da Raffaello, a Michelangelo a Leonardo e interpretarle con uno stile fluido, lieve e luminoso.
La sua maniera di dipingere, morbida e sfumata, dal leggero chiaroscuro e dal "colorito di dolce aria", come lo definisce Vasari, si poteva prestare perfettamente a raffigurare le avventure amorose del padre degli dei.

Federico Gonzaga lo aveva capito e Correggio non lo deluse.
Le storie degli amori e dei travestimenti  di Giove si dispiegano, nei suoi dipinti, con una morbida sensualità: Leda e il cigno, Danae e la pioggia dorata, Ganimede rapito dall'aquila, Io e la nuvola.
Ed è, appunto, in questo soggetto, fino ad allora mai rappresentato nella pittura italiana, che Correggio elabora l'invenzione più straordinaria.

La scena della seduzione si svolge nell'atmosfera crepuscolare di un bosco ombroso, dove le foglie degli alberi hanno i colori dorati dell'autunno.
Per la posa di Io, vista di schiena, Correggio si ispira a un modello classico, mentre il grande vaso, da cui scaturisce il ruscello limpidissimo in primo piano allude al padre di Io, il fiume Inaco.

Al centro della scena domina la stupefacente apparizione della nuvola, di un colore cangiante dal grigio al viola, che sembra materializzarsi misteriosamente nel luogo segreto dell'appuntamento.


Giove, qui, non si nasconde dietro le nubi e non arriva neppure celato dietro una nebbia.

Giove è la nuvola.

Un errore di traduzione della poesia di Ovidio o, più probabilmente, l'immaginazione del pittore, fa sì che le fattezze del dio dell'Olimpo si mescolino, fino a fondersi, nella morbida e soffice superficie della nube.



Occorre solo un po' d'attenzione per intravedere l'eterea materia della mano che abbraccia la ninfa o il volto che si china a baciarla in un'atmosfera tra sogno e veglia, apparizione e fantasticheria.
Mistero e sensualità sono il fascino del dipinto che sembra "fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni", anzi, della sostanza volatile e leggera, di cui sono costituite le nubi.

Un artista capace di creare una nuvola innamorata e di dissolvere  il padre degli dei in una nebbia amorosa.
Per la mia "caccia alle nubi" non potevo immaginare un inizio migliore.





lunedì 26 settembre 2011

Constable: l'innamorato delle nuvole




"Leonardo da Vinci vedeva alberi, paesi, battaglie e altre immagini nelle macchie che trovava nei vecchi muri. Shakespeare vedeva draghi e altri animali nelle forme delle nuvole. Bernardone non vede niente altro che nuvole nelle nuvole e macchie nelle macchie.
(Bruno Munari, Arte come mestiere)





In questi giorni, per me, le nuvole transitano spesso.
Le innumerevoli nuvole vere del  cielo sopra Bruxelles,  autunnale e sontuoso, che passa continuamente dal sereno al grigio dorato, e le nuvole dipinte negli schizzi di John Constable (1776-1837), che ho scoperto grazie a un amico e che ho ritrovato esposte in una mostra (qui è il link).






Sono più di un centinaio e sparsi tra vari musei  gli schizzi delle nuvole che attraversavano il cielo inglese, tra il 1821 e il 1834, tra Hampstead Heath e Brighton;  sono le nuvole che John Constable inseguiva e dipingeva, andando a giro per sentieri e per spiagge solitarie, naso in aria e taccuino di disegni alla mano.

Ha più di quarant'anni, allora, Constable e, da tempo, si è dedicato alla pittura.
Da giovane, ancor prima di iniziare la sua formazione accademica, percorrendo la campagna, si è abituato a riconoscere la bellezza nei più minuti particolari del paesaggio.
E quella bellezza l'ha voluta restituire nei suoi dipinti.

La sua fonte d'ispirazione è la natura e della natura vuole osservare e comprendere tutto, perché - dice -  "non si vede veramente qualcosa, se non lo si capisce".
Guardare con attenzione quello che lo circonda, significa, per lui, dipingere e dipingere vuol dire vivere appieno le proprie sensazioni, perché "la pittura non è che una parola diversa per dire sentimento".

Non é un pittore di storia.
Alle rappresentazioni mitologiche, alle ninfe, agli amorini,  o alle fattezze di qualche nobile personaggio bene abbigliato, da ritrarre dietro lauto compenso, preferisce il paesaggio.
Per lui non è la "presenza dei soggetti umani" che fa il quadro, che lo rende degno di considerazione. Non tiene alcun conto di quella classifica dei generi pittorici, all'epoca comunemente  accettata, che vedeva, al primo posto, il quadro mitologico o di storia e, all'ultimo, quello della natura morta o del paesaggio.
Quello che gli importa è dipingere la campagna che conosce, quella vicino a casa, un albero, una capanna, un carro di fieno o il colore cangiante del mare e abbandonarsi  alle sensazioni che gli suggerisce.
Nella sua pittura i protagonisti sono gli eventi naturali, le forze della natura.

E, soprattutto, il cielo, perché per lui "è l'elemento chiave, l'ago della bilancia, il primo organo del sentimento... e la sorgente della luce che, in natura, governa ogni cosa".
E nei suoi piccoli schizzi (i fogli misurano più o meno 20x15cm), eseguiti in anni e località differenti, raffigura cieli puri senza uccelli, né alberi, né orizzonte.
Cieli che non sono più uno sfondo, ma che diventano il soggetto principale.


Sono paesaggi fatti solo di nuvole, ritratti di nubi,  si potrebbe dire

Una cinquantina d'anni prima, rispetto ai pittori impressionisti, si sofferma a dipingere un unico motivo naturale, che cambia costantemente con le condizioni della stagione, del vento o della luce. Un soggetto sempre diverso e meravigliosamente mutevole.

Lavora all'aria aperta, utilizzando, per i suoi schizzi, colori a olio: una tecnica abbastanza inconsueta. Solo più tardi userà l'acquarello, più facile e più maneggevole.
Sul retro, quasi sempre, aggiunge  delle annotazioni sulla direzione del vento, sull'ora del giorno, sul sole e sulla luce.

Fare "skyning" lo chiama.
Dipinge le nuvole, non per le immagini che evocano e nemmeno per usarle negli sfondi di composizioni più grandi, ma per indagarle  in ogni minimo dettaglio e per studiarne la forma e l'anatomia, come un altro pittore avrebbe studiato l'anatomia del corpo umano.


Sono, in effetti, gli stessi  anni,  in cui compaiono i primi studi di meteorologia: è del 1820 l' articolo di Luke Howards "On the modification of the clouds", con la prima classificazione delle nuvole dal punto di vista scientifico.

E Constable, probabilmente, lo ha letto e sa  distinguere le nuvole alte e le nuvole basse, i cirri, i cumuli, gli strati o i nembi.

Ma, soprattutto, sa ritrarli in maniera diversa.





Sa dipingere i cirri, le nubi bianche e leggere, illuminate dal sole, catturando la luce con dei colpi di bianco o di giallo puro.











O sa raffigurare i cieli plumbei di nuvole basse e gravide di tempesta.















Oppure gli strati di nubi  che, durante un temporale, sembrano occupare tutto lo spazio con la loro massa scura e incombente.








Nei suoi schizzi le nuvole compaiono tutte e tutte sono rappresentate con appassionata precisione: quelle leggere e quelle pesanti, frastagliate o compatte, opache o trasparenti, quelle bianche del cielo assolato  o quelle nere delle giornate di pioggia. 

E si ha l’impressione  che, nella sua ostinata  ricerca di  fissare in pittura  le loro forme e la loro effimera  e variabile bellezza, ci sia  la volontà, se non di rappresentare il trascendente, di suggerirne, almeno, l’esistenza





Qui é il link  a una mostra delle opere di Constable che si è tenuta a Parigi, al Grand Palais nel 2002. Mi ha stupito, ma nemmeno tanto, vedere che è stato un grande artista, apparentemente lontano da Constable, Lucian Freud (ne ho parlato in questo post) che ha curato la scelta delle opere da esporre.Segno che, quando si parla di grande pittura, tutto torna: i ritratti impietosi e taglienti di Freud e i paesaggi  romantici di Constable non sono che aspetti diversi di una comune umana sensibilità.



E ora due link con le poesie di un altro corteggiatore delle nuvole: Fabrizio De André
Tra Nuvole  e Nuvole barocche.
E uno con  C. Debussy, Nocturnes (nouages)