Quando,
anni fa, sono andata in Giappone, con la sola compagnia delle "Ore
giapponesi" del grande Fosco Maraini (ne ho parlato qui) la
prima impressione, dall'aereo, è stata quella di isole piatte che
fluttuavano su un mare chiarissimo, come zattere, che affiorassero
appena, a pelo d'acqua.
L'unica sagoma che emergeva, in controluce,
era quella di un vulcano, il cono perfetto del monte Fuji.
Un'insieme di linee
pure, di contorni netti e definiti. È la stessa visione che mi piace ritrovare nelle
stampe dell'artista geniale e travolgente che fu Hokusai
(1760-1849).
Qui, il Fuji spicca, al centro della scena, col suo colore di un ruggine acceso, che diventa più scuro sulla cima, in contrasto col
bianco immacolato della neve. Il sole illumina le pendici, ricoperte
da un fitto bosco di un verde cupo, mentre il cielo azzurro, è
solcato da candidi banchi di nubi.
È
una stampa della serie delle “Trentasei vedute del monte Fuji”, realizzata da Hokusai tra il 1826 e il 1833, con una tecnica di incisione su legno complessa ed elaborata.
Per
lui, fervente shintoista, il Fuji è la montagna sacra, il simbolo
di tutto il Giappone. La vuole ritrarre in ogni suo aspetto, a ogni
variare della luce e dell'atmosfera delle stagioni.
In
primo piano, o lontano sull'orizzonte, gli pare sia lo sfondo perfetto
per cogliere i diversi momenti della vita degli uomini, che vivono e
lavorano alle sue pendici
Lo stile è quello tipico delle stampe giapponesi: una rappresentazione, ridotta all'essenziale, senza alcun rilievo,
dove la linea sola definisce le forme. Il Fuji innevato e illuminato dalla
luce di un’alba gelida, fa da cornice alla lenta ascesa, verso un
passo montano, di uomini stanchi e cavalli sovraccarichi.
L'acqua placida del fiume contrasta con la massa scura della
montagna. Il banco di nebbia che si alza dà l'impressione di
lontananza e di profondità. Una barca attraversa lentamente il
fiume, mentre un uomo guida un cavallo lungo la riva. L'armonia dei
colori della terra, del bianco della neve e dell'azzurro dell'acqua e
del cielo, è accentuata da un tocco di blu.
È
quel blu, di cui Hokusai si è invaghito, non appena l'ha visto e che
usa per la prima volta: il blu di Prussia, appena scoperto e
importato in Giappone dall'Olanda.
Nella
straordinaria ”Grande onda di Kanagawa” lo scuro del blu di Prussia serve ad accentuare la potenza dell’acqua schiumante che incombe sulle
fragili barche dei pescatori. E, sullo sfondo, ancora immutabile il monte Fuji.
Per
dare profondità alla scena adotta un'altra novità: la prospettiva, appresa dalle
incisioni e dai dipinti di paesaggio che arrivavano, proprio allora,
dall'Europa.
Immagini sintetiche, linee nette, colori primari che sanno cogliere la transitorietà e la bellezza dell'attimo, ma anche il profondo rapporto che lega l'uomo alla natura: con Hokusai il paesaggio diventa un genere a se stante.
La
novità dello stile e del soggetto della serie ebbero un effetto
folgorante.
Il successo fu immediato, tanto che l'artista dovette
aggiungere subito altre incisioni: le repliche e le imitazioni non si potevano contare.
Fino
ad allora, Hokusai era famoso nelle classi più popolari, tra i
mercanti, gli artigiani o i frequentatori delle case da tè, ma
aveva avuto scarsi riconoscimenti dai pittori più tradizionalisti. Lo consideravano "ignobile
e volgare”
perché privo di cultura letteraria, tanto che lui stesso, con un
pizzico di ironia, amava definirsi "il
contadino”.
Ora, invece, le grandi incisioni delle "Trentasei vedute" conquistano
tutti.
Saranno queste a diffondere in Europa il gusto per la pittura
giapponese: una rivelazione abbagliante per artisti del calibro di
Degas, Monet, Gauguin o Van Gogh.
All'epoca della pubblicazione, ha settantatré anni e, dietro di sé,
una vita intensa. Orfano, adottato da un fabbricante di specchi, ha
scoperto precocemente la sua abilità di disegnatore. Non ha fatto
altro che seguire il suo talento e la sua curiosità insaziabile, costeggiando spesso la miseria, a volte
collaborando con grandi maestri, a volte in solitudine.
Lo
spinge avanti l'amore per la vita e la voglia inesauribile di
raffigurare, tutto quello che vede: le scene più comuni del
quotidiano, i piccoli episodi di tutti i giorni, così come i
ritratti delle geishe, degli attori di Kabuki o dei lottatori di
sumo.
Una
produzione sterminata, la sua: migliaia di opere di tutti i generi,
dalla pittura, alle incisioni, ai libri illustrati, ai raffinati
biglietti di auguri.
È
un inquieto e il
suo desiderio di scoprire cose nuove lo porta a viaggiare per tutto
il paese: come "artista errante" comincia ad appassionarsi,
sempre di più allo spettacolo grandioso e continuamente mutevole
della natura.
Lo
stupore, con cui guarda il mondo, non lo abbandona mai.
Nulla
sfugge ai suoi occhi: la sua passione è osservare tutto, la sua
ossessione dipingere e restituire, nelle sue opere, la bellezza di
quello che lo circonda.
Non fosse che un istante, come questo, col
fulmine che colpisce, d'improvviso, le pendici del Fuji.
Dopo
aver percorso tante strade, aver tanto lavorato ed essersi firmato
con centinaia di pseudonimi diversi, sembra aver trovato, finalmente,
quello che più lo rappresenta.
Sceglie
di chiamarsi “Gakojin,
pazzo per il disegno”
Pazzo
per il disegno e per la vita, in ogni suo aspetto.
Scrive
nella prefazione alle "Vedute":
”…Solo
ora, a settantatré anni, ho capito, pressappoco, la conformazione
degli animali, delle erbe, degli alberi e degli uccelli, dei pesci e
degli insetti; a ottant'anni avrò fatto progressi ancora maggiori; a novanta
penetrerò il mistero delle cose; a cento raggiungerò il grado puro
della meraviglia; a centodieci, nella mia opera, tutto, anche una
semplice linea o un punto, sarà una cosa viva…”
Il
suo cammino non è finito. Non si sente mai realizzato e continua
ad andare avanti e a disegnare, finché ne avrà forza.
Nel
1848, a ottantotto anni, scrive di nuovo: “Se
il cielo mi desse ancora cinque anni di vita, potrei diventare un
grande pittore”.
Il
destino gliene darà uno solo.
Morirà,
nel maggio dell’anno successivo, dopo avere composto il suo
ultimo haiku:
“Anche
solo come anima, staccata dal corpo, me ne andrò, per diletto, sui
prati d'estate”.