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giovedì 19 gennaio 2012 15 vostri commenti

Quale verità?


galileo  Parlate pure: il vostro abito vi dà diritto di dire tutto quel che volete.
fulgenzio    Ho studiato matematica, signor Galilei.
galileo Questo può tornarci utile, se vi induce ad ammettere che due e due possono anche fare quattro.
fulgenzio   Signor Galilei, non ho chiuso occhio da tre notti per tentar di conciliare il decreto, che ho letto, con le lune di Giove, che ho viste. Stamattina ho deciso di dire la messa e poi di venirvi a trovare.
galileo    Per dirmi che le lune di Giove non esistono?
fulgenzio    No. Sono riuscito a convincermi che il decre­to è stato saggio. È servito a rivelarmi quanto possa essere rischiosa per l'umanità un'indagine libera da ogni freno: tanto, che ho preso la decisione di abbandonare l'astronomia. Ma ho pure sentito il bisogno di esporvi alcuni motivi che possono spingere anche un astronomo, quale ero io, a interrompere lo studio delle scienze esatte.
galileo    So benissimo quali sono questi motivi.
fulgenzio   Capisco la vostra amarezza. Alludete a certi poteri straordinari di cui dispone la Chiesa.
galileo    Chiamateli pure strumenti di tortura.
fulgenzio  Ma non si tratta solo di questo. Permettete che vi parli di me? Sono cresciuto in campagna, figlio di genitori contadini: gente semplice, che sa tutto della coltivazione dell'ulivo, ma del resto ben poco istruita. Quando osservo le fasi di Venere, ho sempre loro dinanzi agli occhi. Li vedo seduti, insieme a mia sorella, sulla pietra del focolare, mentre consumano il loro ma­gro pasto. Sopra le loro teste stanno le travi del soffitto, annerite dal fumo dei secoli, e le loro mani spossate dal lavoro reggono un coltelluccio. Certo, non vivono bene; ma nella loro miseria esiste una sorta di ordine riposto, una serie di scadenze: il pavimento della casa da lavare, le stagioni che variano nell'uliveto, le decime da paga­re... Le sventure piovono loro addosso con regolarità, quasi seguendo un ciclo. La schiena di mio padre non s'è incurvata tutta in una volta, ma un poco più ogni primavera, lavorando nell'uliveto: allo stesso modo che i parti, succedendosi a intervalli sempre uguali, sempre più facevano di mia madre una creatura senza sesso. Donde traggono la forza necessaria per la loro faticosa esistenza? per salire i sentieri petrosi con le gerle colme sul dorso, per far figli, per mangiare perfino? Dal senso di continuità, di necessità, che infonde in loro lo spetta­colo degli alberi che rinverdiscono ogni anno, la vista del campicello e della chiesetta, la spiegazione del Van­gelo che ascoltano la domenica. Si son sentiti dire e ri­petere che l'occhio di Dio è su di loro, indagatore e qua­si ansioso; che intorno a loro è stato costruito il grande teatro del mondo perché vi facciano buona prova reci­tando ciascuno la grande o piccola parte che gli è asse­gnata... Come la prenderebbero ora, se andassi a dirgli che vivono su un frammento di roccia che rotola ininter­rottamente attraverso lo spazio vuoto e gira intorno a un astro, uno fra tanti, e neppure molto importante? Che scopo avrebbe tutta la loro pazienza, la loro soppor­tazione di tanta infelicità? Quella Sacra Scrittura, che tutto spiega e di tutto mostra la necessità: il sudore, la pazienza, la fame, l'oppressione, a che potrebbe ancora servire se scoprissero che è piena di errori? No: vedo i loro sguardi velarsi di sgomento, e il coltelluccio cadere sulla pietra del focolare; vedo come si sentono traditi, ingannati. Dunque, dicono, non c'è nessun occhio sopra di noi? Siamo noi che dobbiamo provvedere a noi stes­si, ignoranti, vecchi, logori come siamo? Non ci è stata assegnata altra parte che di vivere cosi, da miserabili abitanti di un minuscolo astro, privo di ogni autonomia e niente affatto al centro di tutte le cose? Dunque, la nostra miseria non ha alcun senso, la fame non è una prova di forza, è semplicemente non aver mangiato! E la fatica è piegar la schiena e trascinar pesi, non un me­rito! Così direbbero; ed ecco perché nel decreto del San­t'Uffizio ho scorto una nobile misericordia materna, una grande bontà d'animo.

2000 anni di storia dell'uomo in un opera di Bertolt Brecht, "Vita di Galileo".
Il bisogno dell'uomo di sapere che in fondo dopo ci sarà qualcosa, una luce di speranza che non bada alle classi o l'oppio dei popoli spiegato in maniera chiara e limpida?
Troppo piccoli per sapere? Mai sapere o meglio non sapere?
Una risposta "ai materialisti con il chiodo fisso" o una risposta che è sempre meglio nascondere?
Convivenza tra scienza e religione?
Verità plasmata per governare, per il potere? 
Verità da limare?
Verità unica?
Verità da nascondere per proteggere? 
Verità per arricchire? 
Verità di fede o fede?


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