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martedì 25 febbraio 2014

Strudel alle mele di Midelt con gelato all'olio di argan e i prodotti del territorio Marocchino



 Il mio Marocco colorato, saporito, speziato. Il mio Marocco delle tajine a fuoco lento, dei mercati multicolori, delle olive e l'acqua di fiori d'arancio. Ma non solo.
Il Marocco è un paese in sviluppo e crescita perpetui e produce moltissimi prodotti di territorio di altissima qualità, la maggior parte dei quali sono sconosciuti all'estero. Molti di questi prodotti posseggono già un marchio IGP come la mela di Midelt, l'olio di argan e i datteri Boufegouss, altri, come l'olio di oliva di Zerhoune e il miele di Rich, lo stanno per ottenere, solo per parlare di quelli usati in questa ricetta.

datteri Boufegouss
Ho voluto approfittare dello strudel proposto da Mari per farvi conoscere alcune delle eccellenze territoriali di questo paese di gente gentile e lavoratrice; ho cercato quindi non stravolgere il ripieno da lei proposto, ma di adattarlo ai prodotti locali, preferendo dove possibile quelli della regione Meknés Tafilalet, dove vivo.
La mela di Midelt è uno dei prodotti più apprezzati sul mercato nazionale, ed è una mela croccante, profumata e con un perfetto equilibrio tra dolcezza e acidità. È tanto buona come frutto fresco, ma tiene la cottura in maniera eccellente, senza spappolarsi.

mele di Midelt

Il miele di cardo è raro da trovare e la scelta di usarlo è la ragione per cui ho omesso qualsiasi spezia nel ripieno. È un miele scuro, resinoso e granuloso che emana un leggero gusto di anice e liquirizia e che da solo è bastato per profumare e addolcire tutta la preparazione, in collaborazione con la scorza della limette di Marrakech il cui aroma è differente da qualsiasi agrume possa descrivervi, ma potrebbe assomigliare lontanamente ad un bergamotto meno acido del nostro calabrese.
La Mahia è un'acquavite fatta di datteri o fichi (datteri in questo caso) macerati al sole del deserto del Sahara ed è uno dei pochi prodotti rimasti originari del savoir faire degli ebrei berberi che popolavano queste terre nordafricane.

limette di Marrakech

Il dattero Boufegouss è il preferito durante il mese del Ramadam. È più piccolo del dattero Majhoul ma non ha nulla da invidiargi in quanto a sapore dolce e con un retrogusto leggerissimo di noce moscata. Per lo strudel li ho scelti non completamente secchi in modo che in cottura diventassero della stessa consistenza delle mele, o quasi.
Per completare tutto, e per complementare i sapori, ho scelto di accompagnare il mio strudel di mele con un gelato all'olio di argan, che con il suo forte gusto tra la noce e la nocciola completa la mia scelta di non utilizzare né sostituire i pinoli del ripieno, per uno strudel 100% Marocchino



 Strudel di mele di Midelt con gelato all'olio di argan

per la pasta (ricetta di Mari):
150 g di farina 00
100 ml di acqua calda
1 pizzico di sale
1 cucchiaio di olio d'oliva extra vergine di Zerhoune (regione Meknés Tafilalet)

per il ripieno:
50 g di polvere di mandorle di Tafraout (Regione Souss Massa Drâa)
la buccia di una "limette de Marrakech"
30 g di burro
5 mele di Midelt IGP (Regione Meknés Tafilalet)
100 g di datteri Boufegouss IGP (Regione Meknés Tafilalet)
60 g di miele di cardo (Regione Tanger-Tetouan)
3 cucchiai di Mahia, acquavite di datteri (Regione di Tata)
20 g di burro da spennallare

per il gelato:
3 tuorli
500 ml di latte intero
250 ml di panna fresca
180 g di miele millefiori di Rich (Regione Meknés Tafilalet)
100 g di zucchero
un pizzico di sale
125 ml di olio di argan* IGP (Regione Souss)

Setacciare la farina, aggiungere l'olio e il sale e versare poco a poco l'acqua calda, ma non bollente, sempre mescolando. Quando la farina avrà assorbito l'acqua, passate la pasta ad una spianatoia e lavoratelo con le mani pochi minuti, fino ad avere un impasto morbido, appiccicoso, ma che non si attacca alle dita. Lasciare l'impasto a riposare, coperto da un panno umido, per circa mezz'ora.

Intanto, preparae il ripieno: far sciogliere 30 g di burro in una padellina e farci dorare la polvere di mandorle, facendo attenzione a non bruciarla. Una volta raffreddata, uniteci la scorza grattuggiata della "limette de Marrakech" e lasciate da parte.
Sbucciate le mele, togliete il torsolo, e tagliatele a fette abbastanza sottili alle quali aggiungerete il miele, i datteri snocciolati e tagliati a pezzetti e la Mahia e mischiate bene il tutto.

Su di una tovaglia pulita e infarinata stendete la pasta con il mattarello fino ad averla piuttosto sottile, sollevarla con le mani e con le nocche messe sotto la pasta tirarla verso l'esterno girandola e facendo attenzione a non romperla. La pasta deve essere sottilissima, trasparente. Riponete la sfoglia sulla tovaglia e assolttigliate i bordi con le dita. Distribuite sulla pasta il composto di polvere di mandorle e poi quello di mele. Aiutandosi con la tovaglia fare due primi giri per arrotolare la pasta, poi arrotolate un po' i gli altri due lati e proseguite ad arrotolare fino alla fine. Mettete lo strudel su una placca da forno imburrata e spennellatelo di burro fuso. Infornatelo in funzione statica in forno già caldo a 180° per circa 40 minuti. Per maggiori spiegazioni e foto della preparazione passo a passo, guardate QUI.




Per il gelato, sbattere i tuorli in una terrina. Scaldare il latte, panna, zucchero e miele in modo da fare sciogliere questi ultimi, che il composto sia caldo, ma non deve bollire. Versare il composto di latte a filo sui tuorli sbattuti, continuando a sbattere fino ad avere incorporato il tutto. Versare il composto in una pentola e riportare su fuoco medio senza smettere di mescolare fino a che la crema si addensi e copra il dorso del cucchiaio di legno. Fuori dal fuoco incorporare l'olio di argan*, sbattendo energicamente con una frusta fino ad incorporarlo perfettamente. Lasciar raffreddare a temperatura ambiente e poi mettere in congelatore per tre ore. Frullare il gelato e rimetterlo in congelatore per altre tre ore, ripetere l'operazione e riporlo in congelatore fino all'ora di consumarlo, sopra lo strudel tiepido o accanto, come preferite. 

 * Attenzione. L'olio di argan cosmetico è tossico. L'olio di argan da cucina è fatto con la mandorla di argan torrefatta, il cosmetico è invece spremuto a crudo.



Questo è il mio strudel per l'MTC di febbraio 2014




venerdì 14 dicembre 2012

Zuppa di pollo e finocchi e il mago inverno

 


Mi piace immaginarlo come un vecchietto dalla schiena curva, andare lento e i lunghi capelli bianchi. Un mago senza tempo, che imbianca la vita al suo passare. Odiato o amato, senza vie di mezzo: l'inverno.
Fa freddo. Nevica in alcuni posti e malgrado tutte le noie che possa dare, non c'è stagione più poetica dell'inverno. Fa tornare la voglia di scrivere, di sognare, di scaldarsi ai fornelli e cercare nuove ispirazioni. Le ricette invernali scaldano corpo, mente e cuore. E una semplice zuppa fa scaturire una magia che succede solo in questa stagione. Chi è più scientifico di me, lo chiemarebbe condensazione, io preferisco chiamarla magia: il vetro appannato della cucina, mentre la zuppa cuoce diffondendo il suo aroma.
Quando ero bambina era come un foglio bianco e il mio dito una penna piena del mondo che passava attraverso i miei occhi. Era la libertà di disegnare ciò che volevo o scrivere una frase dettata dal momento. Oggi rimango a guardare come le stesse goccie tracciano una trama sul vetro, un disegno libero, mai uguale, uno spettacolo della natura stessa che a volte, con un pizzico di fantasia, potrebbe rassomigliare a qualcosa di reale. Amo seguirle, ognuna libera e indipendente tracciare un disegno proprio, che a volte si intreccia e incontra con le altre, in una danza calma, quasi una ballerina in silenzio, in punta di piedi, senza musica, ma con un ritmo proprio e unico, ogni goccia un mondo, un destino diverso e un vetro appannato si trasforma in una tela dove emozioni si imprimono e svaniscono.
È la magia del vecchio inverno.



Zuppa di pollo e finocchi


Per 6 persone:

1 cucchiaino di semi di finocchio
3 finocchi
qualche cucchiaio di passata di pomodoro
400 gr di couscous israeliano*

per il brodo:

un pollo di circa 1,5 kg
1 finocchio
1 cipolla
2 carote grossolanamente tritate
3 gambi di sedano grossolanamente tritati
qualche granello di pepe bianco
qualche granello di pepe nero
acqua

prezzemolo e olio di oliva extra vergine, per servire.






Mettere tutti gli ingredienti per il brodo in una pentola e coprirli di acqua fredda. Portare ad ebollizione, poi abbassare il fuoco e cuocere a fuoco più basso possibile durante due ore, eliminando la schiuma di tanto in tanto. Ritirare il pollo, passare il brodo al chinois e lasciar raffreddare in frigo, meglio se tutta una notte, per poi ritirare il grasso che si forma in superficie.
Dissossare ed eliminare la pelle al pollo e conservarne la carne in piccoli pezzi. In una pentola, mettere il brodo, i finocchi tagliati a fette sottili e la passata di pomodoro e aggiungere il pollo, portare ad ebollizione e versare il couscous. Abbassare il fuoco e cuocere per altri 20 minuti.
Servire calda, con un filino di olio extra vergine d'oliva e una manciatina di prezzemolo.

* Il couscous israeliano chiamato anche Ptitim è un prodotto di semola di grano duro a forma di pallina, molto più grande del couscous tradizionale nord-africano. Lo si trova in alcuni negozi etnici e in negozi specializzati Kosher se no, la pastina tipo "piombino" o quella di vostra preferenza lo potranno sostituire.


martedì 27 novembre 2012

Tajine di carne di manzo ai cardi e olive rosa, comincia l'autunno nel mio Marocco




È arrivato, o quasi, l'autunno da queste parti. Va a giorni, il fine settimana ancora c'erano 23 gradi e si stava bene anche a mezze maniche, ieri eravamo sui 15 e così va. Anche il mercato è bizarro come il tempo, cachi e mele sono in alcuni banconi affiancati alle fragole. Non sono di serra, mi spiegano, vengono dal sud dove a causa del ritardo del freddo, le piante hanno ricominciato a produrre e costano poco più della frutta di stagione.
Ma uno dei sovrani indiscutibili di questa stagione in Marocco è senza dubbio il cardo. Sono cominciati ad apparire il mese scorso, venduti interi a fasci come potete vederli nella seconda foto, il venditore solitamente taglia le foglie una volta scelto il prodotto, e ci sono anche alcuni banchetti con donne simpatiche disposte a pulirteli mentre tu fai il giro del mercato. Io ho preferito comprarli interi, per il piacere di fotografarli e per il divertimento di ripulirli, che se hai voglia a e tempo, può risultare un buon antistress. Mi diverte togliere i filamenti e vedere come cambia colore, dal più scuro al verde chiarissimo e dal ruvido e opaco, al liscio e brillante. E amo l'odore, tra l'acre e il frizzante che emana dai gambi appena spezzati prima di finire ben puliti nell'acqua con il limone.
Qui in Marocco le tajine si cucinano tutto l'anno, con differenti ingredienti stagionali che la terra regala ma con le stesse spezie, ad agosto, o a novembre. Trovo però che questi piatti cotti lungo tempo e così speziati siano perfetti in queste stagioni fredde, soprattutto in questa città dove fuori possono fare 5 gradi e le case non sono riscaldate. Niente termosifoni. Niente caldaie. Forse, i più fortunati hanno un camino o due. Il fuoco acceso della piccola stufa in terracotta e la tajine che regala aroma di spezie nella maggior parte dei focolari è calida consolazione tra un maglione e una coperta avvolta intorno al corpo per difendersi dall'inverno. È casa, compagnia, conforto.
Questa tajine, con carne di manzo o di agnello, è un classico stagionale. La versione più povera non prevede l'uso del ras el hanout e dello zafferano e riduce di moltissimo la carne utilizzata, aumentando i cardi. Il rito di mangiare una tajine non prevede l'uso di posate. La pentola vine posta al centro del tavolo, scoperchiata in presenza dei commensali e gustata con il Khobz, il classico pane marocchino tondo e basso, che serve appunto come unica posata per prendere, rigorosamente con la mano destra, ogni boccone che sarà consumato. La tecnica non è facile da imparare, bisogna fare come una specie di "pinza" con il pane per ritirare i pezzetti di carne o verdura da pezzi normalmente molto più grandi di un boccone e da carni che la maggior parte delle volte sono attaccate a un osso, il che non è facile, con una sola mano. Dopo un anno da queste parti, ho imparato finalmente da poco anche se devo ancora perfezionarmi, ma almeno non faccio più la "brutta figura" di chiedere delle posate.
Stamattina fa freddo. 10 gradi centigradi fuori, nuvole grigie e spessissime coprono il bel cielo azzurro marocchino. Vien voglia di rimanere a casa, ma oggi è martedì, che insieme al venerdì sono i giorni più belli per andare al mercato. Credo che comprerò altri cardi, per provare altre ricette.
Per ora vi lascio questa, per scaldarvi con me con carne stufata e aroma di spezie.






Tajine di carne di manzo ai cardi e olive rosa


per 6 persone:

olio extra vergine d'oliva
1 kg e mezzo di manzo da stufare (io petto e stinco)
1 cipolla rossa grande, sbucciata e affettata finemente
2 spicchi d'aglio, affettati finemente
1/2 cucchiaino di ras el hanout (misto di 45 spezie)
1 cucchiaino di cumino in polvere
1 cucchiaino di zenzero in polvere
un pizzico di pistilli di zafferano
1 cucchiaino di curcuma in polvere
coriandolo fresco sminuzzato
prezzemolo fresco sminuzzato
sale
pepe nero
2 limoni
1,5 kg di cardi, pesati senza foglie
200 gr di olive rosa





Scaldare l'olio nella tajine o in una pentola normale, con un coperchio che chiuda bene. Dorare la carne e metterla da parte. Aggiungere le cipolle e l'aglio e far soffriggere fino a far ammorbidire, aggiungere quindi il ras el hanout, cumino, zenzero, zafferano, curcuma, coriandolo e prezzemolo e cucinare durante circa cinque minuti. Condire con sale e pepe e rimettere la carne nella tajine, aggiungendo abbastanza acqua fino a coprirla. Lasciar cucocere per almeno due ore, considerando che i tempi variano a seconda del taglio e della qualità della carne.
Mentre la carne cuoce, pulire i cardi eliminando le foglie (se presenti) e la parte esterna rugosa, poi con un coltellino affilato eliminare tutti i "fili" dai gambi fino a che non ce ne saranno più, fare a pezzi i gambi e immergerli immediatamente in acqua ghiacciata con il succo dei due limoni.
Portare  ad ebollizione dell'acqua in una pentola capiente e gettarci i gambi di cardi, attendere di nuovo l'ebollizione e abbassare il fuoco e far cuocere una quindicina di minuti, o fino a che saranno teneri ma non del tutto cotti. Scolarli e unirli alla carne, insieme alle olive, negli ultimi 40 minuti di cottura.
Servire immediatamente.


mercoledì 10 ottobre 2012

Insalata multicolore di rape, carote e melograno




Semplice. Colorata.
Rape e carote, due ingredienti così poveri, e a volte persino disprezzati, prendono una nuova vita in quest'insalata, ingioiellandosi con i rubini di melograno e le piccole foglie di menta, che creano contrasto di colore. Li ho aspettati tanto i melograni. Quest'anno sono stata sorpresa dai fiori rossi vivo, che non avevo ancora mai visto in vita mia, e li ho seguiti con gli occhi, dalla finestra della cucina, formarsi e maturare, poco a poco, mentre l'attesa si faceva sempre più snervante. Non posso farci nulla, li adoro, forse è perche, alcuni di voi lo sanno, il melograno costudisce i sogni. Anche perchè sa arricchire senza pretese il piatto più semplice, con le sue gemme simili a grezzi rubini.
Mi fa pensare a una metafora della vita. Tanto per cambiare. Di quanto ci lamentiamo, per quello che non va, per quello che non abbiamo, di quanto non ci rendiamo conto in realtà delle fortune che abbiamo giuto accanto a noi. Quel che voglio dire è che siamo più ricchi di quanto crediamo, che le pietre preziose di cui realmente abbiamo bisogno, sono cose semplici e meravigliose, come il sorriso dei nostri bambini, l'abbraccio dei nostri compagni, le prime goccie di pioggia, un arcobaleno quando esce il sole. Dovremmo soffermarci di più a guardare e godere di queste cose, preziose come gemme, semplici e vicine come chicchi di melograno.




Insalata di rape, carote e melograno


Molto liberamente ispirata da un'idea della rivista Saveur

Per 6 persone, come contorno

400 gr di rape bianche
3 carote
i semi di due melograni
una manciata di foglie di menta
il succo di un limone
1 cucchiaio di olio di sesamo
1 cucchiaio di olio d'oliva extra vergine
sale
2 cucchiaini di miele




Lavare, pelare e tagliare in julienne le verdure. In un'insalatiera, mischiare le verdure con i semi di melograno. A parte, mischiare bene il succo di limone, gli olii e il sale e condire con questo composto le verdure. Incorporare le foglie di menta appena prima di servire, o semplicemente sparpagliarle sopra l'insalata.



lunedì 16 luglio 2012

Gelato al foie gras, su pain d'épices, con coulis di fichi (senza gelatiera)




Lo so che non siamo a Natale. Ma per noi ogni scusa è buona per mangiare un buon foie gras. E ci voleva Mapi per avere inoltre la scusa di trasformarlo in gelato. Era tanto tempo che ci pensavo, ma mi ci voleva una buona ricetta di base come la sua per realizzare questa fantasia culinaria che mi perseguitava. Complici i fichi di Azrou, una località poco distante da Meknés che produce una varietà di fichi tra le migliori del mondo, non lo dico io, lo dicono gli intenditori. Fatto sta che da quando ne è iniziata la stagione, ne sto mangiando a quantità per quanto sono dolci e buoni. Li vendono al mercato, su carretti rivestiti di foglie di fico e presentati in suggestivi cesti cilindrici di paglia, il cui coperchio è formato anch'esso di foglie di fico. L'aroma che ne scaturisce è dolce e colloso, attira da vari metri di distanza e quando te ne offrono uno con il garbo e gentilezza tipici marocchini, ne mangeresti un alto e un altro ancora.
In questa ricetta il foie gras incontra i suoi due accompagnamenti più classici, che sono appunto i fichi e il pain d'épices, il tutto trasformato in un piccolo antipasto un po' fuori dal comune, ma che a noi è piaciuto moltissimo e che il quasi marito, superato lo scetticismo iniziale, ha mangiato e rimangiato.
Avevo un po' paura del risultato, in termini di proporzioni tra zuccheri e grassi. Non so se l'uso della panna e latte di soia abbia contribuito, ma il gelato che ne è venuto fuori è stato corposo, denso e cremoso, poco più consistente di quello alla crema.
Dicevo, lo so che non siamo a Natale, ma a Natale i fichi freschi non ci sono.





Gelato al foie gras su pain d'épices, con coulis di fichi


Per 6 persone, una pallina di gelato ciascuno

Per il gelato al foie gras:

300 ml di latte (per me di soia)
3 tuorli d'uovo
20 gr di zucchero semolato
150 gr di bloc de foie gras (foie gras intero cotto, in scatola)
200 ml di panna (per me di soia)
un pizzico di sale
pepe nero macinato al momento

per il pain d'épices:
(Ricetta dal diario di Sarah Hillman)

250 gr di miele d'acacia
50 gr di zucchero di canna scuro (cassonade)
125 gr di farina 00
125 gr di farina integrale
1 bustina di lievito per dolci
100 ml di latte freddo (per me di soia)
2 uova grandi
1 cucchiaino di anice verde in polvere
1 cucchiaino di cardamomo in polvere
1 cucchiaino di zenzero in polvere
1 cucchiaino di cannella in polvere
1/2 cucchiaino di noce moscata grattata

per il coulis di fichi:

200 gr di fichi verdi
25 gr di zucchero


Il giorno prima, procedere con la elaborazione del pain d'épices. Scaldare il miele con lo zucchero fino a dissolvere lo zucchero, lasciar intiepidire. In una terrina, mischiare le farine con il lievito e fare un buco nel centro e versarci il latte freddo, le spezie, le uova e per ultimo il miele tiepido. Sbattere energicamente con la frusta fino ad ottenere un composto liscio e omogeneo. Infornare in uno stampo da cake unto d'olio in forno già caldo a 180°C per una quarantina di minuti. Se fosse necessario, coprire con alluminio a metà cottura, io non ne ho avuto bisogno. Sformarlo ancora caldo e lasciarlo raffreddare, poi avvolgerlo in alluminio per 24 ore per gustarlo in tutto il suo splendore, di sapore e morbidezza.




Per il gelato: sbattere i tuorli con lo zucchero finchè si ottiene un composto rigonfio, liscio e brillante. Scaldare il latte quasi al bollore, aggiungere il foie gras ridotto a pezzetti, mischiare per incorporare bene, aggiungere un pizzico di sale e un poco di pepe nero macinato al momento. Versare il latte al foie gras a filo sulle uova. Riportare il composto sul fuoco fino ad arrivare a una temperatura di 85°, se non avete il termometro, spegnate il fuoco quando la crema ricoprirà il dorso di un cucchiaio di legno. Raffreddare subito la crema, immergendo la pentola in acqua con ghiaccio e mischiando in continuazione per far raffreddare omogeneamente. Cambiare varie volte l'acqua e ghiaccio fino a raffreddamento totale della crema. Riporre la crema in un recipiente ermetico in frigo per almeno un'ora. Quando la crema sarà ben fredda, mischaiarla con la panna e mettere il tutto in un contenitore basso, lungo e largo e riporre in congelatore circa 90 minuti. Trascorso questo tempo sbattere la crema con le fruste elettriche o nel mixer e riporla di nuovo in congelatore per un'ora e mezza, dopodiché sbatterete di nuovo e poi una terza volta dopo un'altra ora e mezza. Dopodiché ritrasferirlo in congelatore, nella vaschetta che lo conterrà definitivamente, a circa 6 mm dal bordo, coprendo la superficie con un pezzo di carta forno per almeno un'altra ora. Passarlo poi in frigo, almeno 20 minuti prima di servirlo.




Per il coulis di fichi, sbucciare i fichi e frullarne la polpa insieme allo zucchero e passare il tutto al chinois, premendo bene con l'aiuto di un cucchiaino. Conservare in frigo, non più di 24 ore, poichè lo zucchero aiuta la fermentazione dei fichi.

Per servire, tagliare tre fette di pain d'épices e toglierne la crosta. Tagliarle a metà e servire una metà in ogni piatto. Adagiare una pallina di gelato sulle fette di pain d'épices e bagnarla con il coulis di fiichi. Servire subito.


Con questa ricetta partecipo al MTC di luglio




giovedì 31 maggio 2012

Pollo all'olio di argan e fiori di menta piperita con dadolata di zucchine



Un ennesimo regalo del giardino. La menta piperita qui cresce selvatica anche a volte al bordo delle strade. Nella parte incolta del gran giardino della casa dove vivo, spunta rigogliosa dappertutto e in questo momento ci regala i suoi fiori lilla chiaro.
Si chiama Fliù in arabo marocchino, ed è usata sia in cucina che per aromatizzare il té. Non si tratta della menta caratteristica del tradizionale té alla menta, ma insieme ad altre erbe come l'assenzio rappresenta un'alternativa al rito del té, parte fondamentale degli usi e costumi di questo Marocco che mi ammalia sempre di più.
Questa non è una ricetta marocchina, ma nasce utilizzando due prodotti di questa terra rigogliosa: il dono del giardino e l'olio di argan.
Rappresenta la mia prima esperienza culinaria con quest'olio dall'aroma fruttato e dalle note persistenti di mandorla e nocciola. Prodotto di lusso, l'olio di argan da cucina è differente da quello cosmetico. Tengo a dirvelo, non si sa mai. L'olio di argan cosmetico è fatto dalla pressione delle mandorle di argan pelate e crude, quello per cucina, è prodotto dalle mandorle torrefatte. Non solo, è anche uno dei prodotti più falsificati nei suk, centinaia litri di olio di argan falso vengono venduti ogni giorno a prezzo di quello vero.
Una ricetta fiorita semplicissima da realizzare, ma che deve la sua particolarità a questi due ingredienti poco comuni, il cui accostamento ho apprezzato moltissimo, e non solo io.


Pollo all'olio di argan e fiori di menta piperita con dadolata di zucchine

Ingredienti per 6 persone:

1 pollo, tagliato a pezzi
2 scalogni
olio di argan
sale
pepe
200 ml di acqua
una manciata abbondante di fiori di menta piperita, più qualche rametto per decorare
600 gr di zucchine verde chiaro 






Bollire l'acqua e mettere i fiori in infusione per almeno mezz'ora. Filtrare e conservare.
Cuocere le zucchine tagliate a piccoli di daini in acqua salata bollente per qualche minuto, scolare e conservare in caldo.
In una padella capiente, scaldare l'olio di argan e soffriggere lo scalogno fino a farlo diventare soffice e dorato. Poi aggiungere il pollo e farlo ben rosolare e dorare da tutti i lati. Quando il pollo avrà raggiunto un bel colore oro scuro, bagnare con l'infusione di fiori di menta piperita, portare ad ebollizione, coprire e lasciar cuocere per 30 minuti, o fino a che il pollo sarà ben cotto. Scoprire la padella per far ridurre il liquido completamente e rosolare ancora un po' il pollo nella salsa restante.
Servire immediatamente decorato con fiori di menta piperita e contornato dalla dadolata di zucchine.


E dopo  Roberta., Roby, e Mai non perdetevi domani la ricetta di Patty per la raccolta fiorita più bella del web.


mercoledì 16 maggio 2012

I peperoni imbottiti, un classico napoletano





Credo di averlo sfogliato tutto, nella ricerca di una loro ricetta da riproporre. 
Il blog Assaggi di Viaggio è un blog ricchissimo e c'è l'imbarazzo della scelta. Ero sicura che non volevo fosse un dolce, perchè Annalù è inimitabile in quel campo e rischiavo di fare una brutta figura, e anche che la ricetta non dovesse avere troppi ingredienti da sostituire, sia per le norme alimentari, sia per prodotti che avrei potuto non trovare qui. E mentre sfogliavo e risfogliavo, mi sono prima imbattuta su una torta salata con olive e pomodorini, che ho scartato solo nel momento in cui la mia vista si è posata su di loro: i peperoni imbottiti. Difficile resistere.
Non so a voi, ma ci sono piatti che mi risvegliano i ricordi, è questo ne è uno. Quando arrivava l'estate, e con lei i peperoni, mia madre era solita a fare questa ricetta che noi aspettavamo con ansia. La sua era abbastanza più pesante, il pane, nel suo caso grattato, veniva passato in padella con olio abbondante per farne una pasta che si mischiava con il resto degli ingredienti, tra cui le acciughe.
Complici i bellissimi peperoni gialli trovati al mercato, che mia madre sosteneva essere i migliori da farcire, complici anche le ottime olive marocchine, non avrei mai potuto dire di no a questa ricetta della memoria, alla quale ho solo sostituito il salame previsto con delle acciughe sott'olio, che hanno creato un sapore equilibrato con il resto degli ingredienti.
Adesso c'è solo da chiedersi se quel cuoricino scuro sul giallo solare dei peperoni che si è formato in cottura, è per i ricordi che la ricetta ha fatto affiorare, o per il bene che voglio ad Annalù e Fabio.
Chissà.


Peperoni imbottiti alla napoletana

4 peperoni
4 fette di pane raffermo
20 gr di acciughe sott'olio
200 gr di mozzarella
100 gr di olive verdi
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
sale
olio extra vergine d'oliva




Lavare i peperoni e tagliarne la calotta. Privarli dei semi e dei filamenti. Mettere il pane raffermo a spugnare nell'acqua e poi strizzarlo per eliminare l'eccesso di liquido. Mischiare il pane spugnato con la mozzarella tagliata in piccoli pezzi, le olive, le acciughe triturate al coltello e il parmigiano. Condire il tutto con un filo d'olio e del sale. Farcire i peperoni con questo composto e infornare a 180° C durante un'oretta.



Questa è la mia ricetta per The Recipe-tionist di Maggio, di Flavia.



venerdì 11 maggio 2012

Galletti farciti alle albicocche



Una ricetta di ispirazione marocchina. Ancora, direte voi.
Cosa posso farci? questo paese mi ha conquistata con i suoi sapori, i connubi di dolce e salato, i suoi cumuli conici di spezie nei mercati e la freschezza di ogni cosa. 
I galletti sono molto comuni nella cucina marocchina, li si trova sempre, in tutte le stagioni, sono molto piccoli rispetto alle nostre abitudini e fanno praticamente una monoporzione.
Tranne il riso, che non si coltiva qui, ho usato solamente prodotti di produzione locale. Le albicocche, abbondanti durante l'estate, vengono essiccate al sole rovente della stagione più calda e invadono i mercati durante tutto l'anno isieme a datteri di vari tipi, uva passa di più colori e altra frutta essiccata. Anche il cumino e la curcuma sono prodotti localmente, essiccati naturalmente e venduti interi o già in polvere. Da quando sono qui, preferisco comprare le spezie intere e macinarle da me al momento del loro uso, credetemi, hanno tutto un'altro aroma. In quanto ai limoni, sono frutto del mio giardino, dove tre grandi alberi producono più di quanto possiamo consumare.
Tra poco più di tre anni, il problema sarà lasciare questo paese delle meraviglie.
Intanto me lo godo, con i suoi tesori culinari e non, che ogni tanto continuerò a regalarvi.
 

Galletti farciti alle albicocche

5 galletti (250-300 gr ciascuno circa)*
130 gr di riso
2 vasetti di yogurt
18-20 albicocche secche
1 cipolla
2 limoni bio
3 cucchiaini di curcuma
1,5 cucchiaini di cumino in polvere
pepe
sale.




Cuocere il riso in abbondante acqua senza sale e scolarlo a metà cottura. Farlo raffredddare e mischiarlo con la cipolla tritata, la scorza dei limoni, le albicocche tagliate a pezzetti, la metà del succo dei limoni grattuggiata, la metà della curcuma, la metà del cumino e la metà dello yogurt. Condire con sale e pepe. Mischiare bene il tutto e farcire i galletti, legarli con lo spago, adagiarli su una placca da forno leggermente unta di olio d'oliva, coprirli con alluminio e infornarli a 190°C per 20 minuti. 
Intanto, mischiare il resto dello yogurt, succo di limone e spezie, condire con poco sale e pepe e lasciare da parte. Passati i quindici minuti, togliere i galletti dal forno, togliere l'alluminio e spennellare i galletti abbondantemente con il composto di yogurt. Riportare in forno scoperti fino a quando saranno dorati e ben cotti, altri venti minuti circa, nel mio forno.
Togliere lo spago e servire.

*Nota: Le stesse proporzioni possono usarsi per due galletti di grandezza standard europeo.


Con questa ricetta partecipo al contest di Dauliana


martedì 24 aprile 2012

Tajine di primavera, con piselli e fave, al profumo di menta



Ci sono scorci del Marocco che pochi turisti si addentrano a guardare. Certamente le città imperiali hanno già tante cose da scoprire agli occhi curiosi del viaggiatore, ma fuori c'è un mondo genuino e intrigante che rapisce all'istante.
A pochi kilometri dalla città esiste un mondo parallelo e diverso, dove il tempo sembra essersi fermato e in cui non solo il cibo, ma la vita stessa sono più genuini. In quest'epoca, gli oliveti ospitano piccole piantagioni di grano intorno ai grandi alberi argentei e i papaveri abitano riglogliosi ed orgogliosi tra i campi di fave, creando un gioco di contrasto di colori, che rimarrei li ore ed ore a guardare, come si muovono ondeggianti con il vento di primavera.
Per le strade di campagna, c'è sempre chi vende qualcosa di colto in giornata. Erbe spontanee a me sconosciute, le ultime arance, le splendide e profumate fave ed altro ancora. La vita quotidiana dei piccoli villaggi scorre tranquilla, tra il televisore del barbiere, il gregge a cui badare e i campi da arare, da seminare o raccogliere. Niente fertilizzanti, pesticidi o quant'altro, qui tutto è più naturale, si ara con il bue o con l'asino, si semina e raccoglie a mano, ed è uno spettacolo fermarsi a guardare, come catapultati dentro secoli fa.
È il Marocco genuino delle campagne, colorato e vibrante, semplice e ammaliante. è il Marocco che amo e che vivo.


Tajine di primavera, con fave e piselli, al profumo di menta

Tratta dal libro "A month in Marrakesh" di Andy Harris

Ingredienti per 6 persone:

Olio extra vergine d'oliva
1kg di carne di agnello tagliata a pezzi di 5 cm. (potete usare manzo o pollo)
1 cipolla, tritata
2 spicchi d'aglio tritati
1 pomodoro grande, sbucciato, senza semi e tritato
1 cucchiaino di zenzero in polvere
1 cucchiaino di pistilli di zafferano
1 cucchiaino di coriandolo in polvere
2 rametti di menta finemente tritata
sale
pepe nero appena macinato
400 gr di patate, meglio se novelle
100 gr di piselli sgranati
100 gr di fave sgranate
qualche foglia di menta, per decorare




Nell'olio caldo, fate rosolare la carne e trasferitela poi in un altro piatto. Nella tajine (o pentola) dove avete fatto rosolare la carne, aggiungete la cipolla, l'aglio e il pomodoro e cuocere per qualche minuto dino a che sia tutto tenero, quindi aggiungere lo zenzero, zafferano, coriandolo e menta e cuocere il tutto ancora per cinque minuti. Salare e pepare a piacere.
Rimettere la carne nella tajine e aggiungere acqua sufficiente per coprirla. Portare ad ebollizione e poi abbassare il fuoco e lasciar cuocere lentamente un'ora e mezza circa, o fino a che la carne sarà tenera e la salsa densa. Aggiungere le patate, le fave e i piselli e proseguire la cottura per altri venti minuti o fino a che le verdure saranno cotte.

Nota: se non avete una tajine, potete usare qualsiasi pentola con un coperchio che chiuda bene.


lunedì 16 aprile 2012

Bocconcini di spada al sesamo su zabaglione di asparagi alla vaniglia




Tutto è iniziato da quel bellissimo e freschissimo pesce spada intero che faceva bella mostra di sé sul bancone del pescivendolo e dal colpo di fortuna di trovare due mazzetti di asparagi, cosa rarissima qui. Il resto lo ha fatto la voglia di sorprendere qualcuno per il parnzo della domenica e l'aver avuto il tempo non solo di fare, ma anche di decidere abbinamenti e tecniche da utilizzare.
Così è nata questa ricetta, tra il classico e l'azzardato, semplice e di effetto.



Bocconcini di pesce spada su zabaglione di asparagi alla vaniglia


Ingredienti per 5 persone:
500 gr di pesce spada
olio d'oliva extra vergine
100 gr (pù o meno) di sesamo tostato
4 tuorli
2 albumi
60 gr di burro a pezzetti
150 gr di punte di asparagi
1 stecca di vaniglia
sale




Mettere in un pentolino le punte di asparagi in 250 ml di acqua insieme alla stecca di vanigli apaerta a metà in lungo e fate cuocere a fuoco medio fino a cottura ultimata degli asparagi. Togliere la stecca di vaniglia, aggiungere sale e passare il tutto al mixer e poi al chinois. Lasciar raffreddare completamente. Una volta raffreddata la crema di asparagi, mischiarci i tuorli d'uovo e portare il tutto a bagno maria. Sbattere il tutto con una frusta, sempre in bagno maria fino ad ottenere un composto spumoso e denso. mantenere in caldo.
Passare i bocconcini di pesce prima nel bianco d'uovo e poi impanarli con il sesamo.
In una padella, scaldare l'olio e cuocere il pesce da tutti i lati.
Servire qualche cucchiaiata dello zabaglione su ogni piatto e adagiarci i bocconcini di spada. Spolverare con un po' di sesamo, se volete.


mercoledì 11 aprile 2012

Zuppa di fave, piselli e carciofi...ritorno a casa





Vi ho portato spesso in giro per il mondo. Dal Costa Rica all'India, dalla Francia al Perù fino al caldo Marocco che mi ospita e altrove ancora. Vi ho fatto assaggiare spezie e a volte accostamenti osati e ingredienti da alcuni di voi poco conosciuti. È il carattere che ho dato a questo piccolo angolo di web, senza pretese di nessun tipo, anche perché del resto Burro e Miele è mio e dentro ci sono io, tutta la mia anima, la mia vita, i viaggi e le voglie, gli scritti, le parole, le scoperte, i sapori.
E no, non vi sto dicendo che da oggi cambio rotta. Solo che dopo aver fatto un po' di giro di mondo, Burro e Miele ha voglia di tornare a casa, virtualmente, certo. 
E dove sarà mai questa casa? Lo so che ve lo state chiedendo.
Sebbene sia certo che casa è ovunque siano gli affetti e la famiglia stretta, se guardo indietro nella mia vita la sola parola "casa" mi fa pensare ad un solo posto: una casa bianca, con gli infissi e i battenti dipinti di verde, situata tra i monti Aurunci e il mar Tirreno e dove i carciofi crescevano da soli al bordo di un fossato.
In un posto dove un detto famoso diceva "il ciocco più grosso, tienilo per maggio", la primavera era ancora stagione di zuppe confortanti, ma con i colori che la stagione regala. Il giardino ci regalava carciofi che nessuno aveva piantato e la terra intorno a noi offriva cipolle fresche, fave e carciofi. Quando eravamo bambini ci contendevamo i gambi, peccato che qui li vendano senza, lasciando solo un mozzicone della parte più buona dei carciofi, almeno secondo noi.
Questa zuppa appartiene al patrimonio culinario della mia famiglia e per me è sinonimo di un periodo felice della mia vita, un momento in cui la semplicità era gioia e anche sgranare fave e piselli era il gioco più bello del momento, quel momento che doveva viversi, perché non durava tutto l'anno.
È per questo che quando ieri mattina al mercato un contadino aveva dei bellissimi carciofi violetti, delle belle fave e dei piselli che profumavano di primavera, non ho esitato a portare tutto a casa e scrivere a mio padre per chiedergi la ricetta, perchè non la ricordavo più. La risposta non si è fatta attendere ed è arrivata in tempo per la cena.
Mentre cuoceva, l'aroma della pentola mi ha trasportato via, verso quella casa, quella cucina con il camino acceso e piccole mani che sgranavano fave e piselli in compagnia.
Una ricetta dei ricordi, che sa di casa e famiglia, eccelsa nella sua semplicità.





Zuppa di fave, piselli e carciofi


Ingredienti per 6-8 persone

olio extra vergine d'oliva
3 cipollotti novelli
150 gr di pancetta (io bovina)
un bel ciuffo di prezzemolo
2,5 kg di carciofi
2 kg di fave (da sgranare)
1,5 kg di piselli (da sgranare)
acqua quanto basta
sale
pepe




I carciofi si privano delle foglie più dure, si puliscono di eventuale barba e si mettono a bagno nell'acqua e limone. Intanto, si sgranano le fave e i piselli. 
Tritare cipollotti, pancetta e prezzemolo e soffriggerli nell'olio caldo in una pentola dai bordi alti. Poi aggiungere i carciofi, (scolati dall'acqua e limone) le fave, i piselli e il pepe macinato al momento, far rosolare durante una mezz'ora e coprire di acqua e condire con sale. Far cuocere ancora un'ora o fino a che le verdure saranno cotte, aggiungendo acqua se necessario.



lunedì 26 marzo 2012

Pavo (tacchino) en chirmole e una (st)raordinaria figura emblematica: La Malinche




Quell'albero della famiglia delle acacie, una nuvola di fiori arancione intenso, dalla forma simile a quella dell'orchideae mi attrasse dal primo sguardo come ferro verso una calamita. Non sapevo ancora che l'avrei incontrata li.
-Come si chiama quest'albero?- chiesi al contadino con il mio spagnolo allora ancora un po' incerto.
-Malinche-rispose.
-E cosa significa?- domandai come sempre curiosa di tutto ciò che mi circonda.
-Malinche, la traditrice del popolo indigeno.
Così fu il mio primo "incontro" con questa donna straordinaria.
In quei tempi in cui nessuno ancora aveva Internet in casa, Malinche mi portò subito in biblioteca, tra testi messicani e non per scoprire questo personaggio storico, emblematico e controverso.


da Google Images

La Malinche, conosciuta anche come Malintzin, (che significa in nahuatl Flor Marina, Fiore Marino, in italiano) e battezzata poi in spagnolo Doña Marina, visse tra il 1496 e il 1531, fu una donna indigena originaria dell'Istmo di tehuantapec, che era all'epoca la "frontiera" tra l'impero Maya e quello Azteca.. Dopo la morte di suo padre, gran signore e membro della nobiltà azteca, sua madre si sposò di nuovo e perchè non ci fossero dispute sull'eredità, vendette sua figlia Malinche, come schiava ad una carovana Maya di passaggio, diretta alla provincia di Tabasco e fu poi donata come schiava al conquistador Hernàn Cortès, insieme ad altre diciannove schiave, come regalo di pace.
Bella, seducente e brillante, Malinche imparò rapidamente lo spagnolo e grazie alle sue conoscenze geografiche e le sue abilità linguistiche, divenne fida consigliera di Cortés e poi la sua amante e con il quale ebbe un figlio, Martìn.
Venne chiamata "la lingua" perchè durante la guerra tra indigeni e spagnoli e la conquista del territorio, lei servì da interprete, conoscendo bene il Nahuatl (la sua lingua materna Azteca), il Maya e lo Spagnolo. malinche fu presente in tutte le negoziazioni tra Cortés e gli imperatori mesoamericani, nelle quali cercò sempre di preservare dei vantaggi agli indigeni ed contribuì alla ricostruzione e reorganizzazione dell'impero messicano sotto la dominazione spagnola.
 Tuttavia, vituperiata dalla storia nazionalista messicana, Malinche è considerata una traditrice e complice della caduta dell'impero Azteca.
 Nell'immaginario messicano la Malinche rappresenta un doppio simbolismo: il tradimento e la donna violentata. Infatti, un altro nome con cui la si chiama è La Chingada, che significa "la violentata". Ma nel linguaggio popolare dello spagnolo messicano, questa è una parola ambigua, che cambia di senso secondo il tono in cui la si pronuncia. El verbo Chingar esprime un'azione violenta. Figlio della Chingada, ossia figlio di Malinche, è il peggior insulto per chiunque in Messico, paragonabile a "hijo de puta" per gli spagnoli. Mentre per gli spagnoli la vergogna massima è l'essere figli di una donna che si da di sua volontà per danaro, per i messicani invece il disonore consiste nell'essere figli di una donna violentata, forzata.
Infine, il verbo chingar è anche usato nella logica di vincitori e vinti. Si dice ya chingué, per dire ho vinto, me chingaron, per mi hanno sconfitto e soy un chingòn per esprimere sono un vincitore, probabilmente riferito alla storia di guerra tra indigeni e spagnoli e al fatto che si crede che Malinche abbia tradito il suo popolo aiutando Cortés a comprendere i codici dell'epoca per meglio vincere la guerra.
Malinche incarna l'immagine della donna individualista e pragmatica, colei che utilizzò la sua inteligenza a beneficio proprio, con il fine di ottenere il potere, rimanere accanto al suo amanto ed essere dalla parte dello straniero vincitore. Ecco perchè il termine spagnolo-messicano "Malinchista" è riferito a colui che è contagiato da tendenze straniere ed eccessivamente servile verso lo straniero, a scapito delle proprie origini.

da Google Images

Il premio Nobel per la letteratura Octavio Paz cercò negli anni cinquanta di riscattare la figura della Malinche descrivendola come vittima e non vincitrice, l'incarnazione di una donna usata, sfruttata, sedotta e poi abbandonata. Per lui La Malince simbolizza il passato e l'origine dei messicani, così come la loro negazione ad accettare le loro radici. Lo scrittore Carlos Fuentes riprende poi negli anni novanta questo discorso, per lui La Malinche è la madre simbolica del primo bambino di sangue spagnolo e indigeno, il primo messicano, e la ringrazia di aver dato origine a questa nuova casta di sangue mischiato. Come Paz, Fuentes si dichiara figlio della Malinche, nel senso di figlio di genitori spagnoli e indigeni e scrive che il conflitto tra le due culture ormai non esiste più. Malinche "partorì parlando la nuova lingua che imparò da Cortés, la lingua spagnola, lingua della ribellione e della speranza, della vita e la morte, che si sarebbe trasformata nel legame più forte tra i discendenti degli indios, europei e negri dell'emisfero americano".
Ripudiare la Malinche, significa quindi, secondo Fuentes, respingere e rifiutare le proprie origini.
Eppure La malinche resta ancora al giorno d'oggi la Chingada, la traditrice individualista nell'occhio del messicano di qualsiasi ceto sociale.
Quando scrissi all'epoca un saggio su questo personaggio, mi chiesi come sarebbe il suo ricordo se fosse stato un uomo, il fido collaboratore e "la lingua" del Conquistador. Nelle conclusioni personali, vidi Malinche come la vittima di quel machismo tanto radicato in Messico come nella maggior parte dell'America Latina, dove la donna deve essere casta, abnegata, sopportatrice, sofferente, sottomessa e docile. Per me a quel tempo, il ripudio verso Malinche era il simbolo della donna oppressa, schiava domestica e sessuale il cui destino doveva essere solo per la casa e per i figli, e l'incarnazione del rigetto violento, troppe volte ancora oggi presente, della donna che cerca l'equità, della donna inteligente che studia e che lavora.
Oggi, rileggendo e rianalizzando i testi e riprendendo questo personaggio storico talmente emblematico ed interessante, lo vedo con altri occhi. Ora vedo La Malinche come la madre dell'interculturalità latinoamericana, un personaggio d'ibridismo culturale, che seppe adattarsi al cambiamento con il fine di sopravvivere, destino che condivise con il suo popolo.
Ad una donna che comprendeva e interpretava i codici e le lingue di diverse culture non può assolutamente essere assegnato lo status di donna violentata e manipolata, vittima del conquistatore e non può essere condannata per la sua apertura di spirito e la sua vocazione di comunicatrice.
Malinche rappresenta la comunicazione multiculturale, mediatrice brillante tra l'America Messicana e l'Europa Iberica. È la figura per eccellenza della comunicazione verso l'esterno, fondatrice della diversità e del dialogo multiculturale e del globalismo culturale.
Credo fermamente che Malinche sia una figura da esplorare per meglio comprenderne la complessità e restituirle il posto che merita nella storia.

A lei, i miei omaggi.

Bibliografia:
Azteca, di Gary Jennings
Malinche, la gran calumniada, di Otilia Meza
El espejo enterrado, di Carlos Fuentes
El laberinto de la soledad, di Octavio Paz
El corazòn de piedra verde, di Salvador de Madariaga


A Malinche dedico uno dei piatti tipici della regione di Tabasco, per essere il posto dove ha incontrato Hernàn Cortés. Oggi la ricetta si fa con il pollo, animale introdotto dagli spagnoli e attualmente molto più economico per il portafoglio dei messicani. La ricetta originale antica è andata persa, ingredienti non autoctoni come la cipolla, il chiodo di garfano e il pepe, si sono imposti nello sviluppo e cambiamento di questo piatto con il passare dei secoli. Anche la cucina messicana è cambiata integrando prodotti derivati dallo scambio culturale.
Rispetto alla ricetta originale, ho cambiato solo due ingredienti non reperibili qui.


Pavo (tacchino) en Chirmole

Ingredienti per 8 persone:

olio di mais
2 kg di filetto di tacchino
1 rametto di epazote o coriandolo coyote (ho usato un bouquet di coriandolo fresco normale)
2 spicchi d'agio
1 cipolla
4 chile ancho (ho usato peperoncino fresco delle Antille, che gli somiglia un po')
5 chiodi di garofano
6 semi di pimento, o pepe di Jamaica
6 semi di pepe nero
4 tortillas di mais, o farina di mais bianco e acqua
150 gr di semi di zucca, interi
acqua calda, quanto basta
sale al gusto




Per le tortillas non ho una ricetta ben definita, nel senso che faccio tutto ad occhio come mi è stato insegnato liggiù. La farina però deve essere di mais bianco, non tipo polenta, né fioretto, perchè non si raggiunge lo stesso risultato. Si mischia con acqua fino ad avere una consistenza tipo plastilina e si formano varie palline. Queste palline poi si appiattiscono con la parte inferiore del palmo delle mani fino ad avere una sfoglia sottilissima e perfettamente rotonda, ma è un'arte e ci vuole pratica. Una volta preparate, si cuociono sul fuoco in un comal, che è una specie di padella leggermente concava e di coccio, da ambi i lati. Il risultato dev'essere elastico, deve potersi piegare e arrotolare senza rompersi.
Il profumo delle tortillas appena fatte, vale bene l'intento di provare, se no, potete comprarle, ma che siano di mais e non di grano.
Il filetto di tacchino si taglia a pezzi e si rosola ben bene fino a dorarlo nell'olio caldo, poi si mette a parte. Le tortillas si tostano fino a quasi bruciarle. I semi di zucca si fanno tostare fino a che si gonfino, senza aggiunta di grasso e si utilizzano interi, non bisogna sbucciarli. Infine, la cipolla, l'aglio e i peperoncini vanno arrostiti sulla fiamma viva il più possibile, avendo cura però di non bruciarli.
In un mortaio si pestano bene i semi di zucca insieme alle totillas e alle spezie fino a ridurli in polvere, si aggiungono le verdure arrostite e si continua a pestare, fino a ridurre il tutto ad un compsto omogeneo e liscio. Al tutto si aggiunge acqua calda, abbastanza per ottenere un composto cremoso ma abbastanza liquido che si metterà sul fuoco in una padella abbastanza capiente fino a farlo addensare. Poi si aggiuge il tacchino, il sale e il coriandolo sminuzzato e si fa cuocere a fuoco lento fino a terminarne la cottura.



E dopo Alessandra e Daniela, Annalù e Fabio, Mapi, Flavia e Stefania, questa è la mia partecipazione alla raccolta Donne (St)raordinarie delle Strenne. 
Non perdetevi domani la ricetta di Gaia , mercoledì invece appuntamento da Greta, giovedì da Mai, e venerdì da Patti.



venerdì 16 marzo 2012

Torta gluten free al cioccolato bianco e alle rose, profumata al cardamomo...realismo magico in cucina



Maggio 1996, un foglio di carta arrotolato su sé stesso mi diceva che ero diventata giornalista. Quattro anni di studio si erano felicemente conclusi con un "summa cum laude" che ancora stentavo a credere. Avevo ventidue anni, lavoravo già per un quotidiano, in un posto in redazione di cronaca nera che non mi si addiceva affatto e nel team investigativo, quando c'era qualcosa da investigare, che mi piaceva un po' di più. Dicevano che avevo "fiuto", ma io questo fiuto credo di averlo sempre avuto solo per la cucina.
Scrivevo anche articoli indipendenti per la rivista inserta della domenica, a tema scelto da me, che mi davano quel respiro di cui avevo bisogno e mi permettevano fare quello che più adoravo. Scrivere. Io volevo scrivere. Non credo di avere un talento particolare, ma è quello che mi è sempre piaciuto fare più di ogni altra cosa al mondo, insieme a leggere e cucinare e di certo la copertura di incidenti e omicidi non era esattamente il tipo di giornalismo che avrei voluto esercitare per sempre.
Era un momento nella mia vita in cui sapevo che qualcosa doveva cambiare, ma titubavo su che strada prendere, anche perchè l'ottima riuscita accademica mi apriva varie possibilità. Nel ventaglio di offerte che mi si proponevano c'era: la proposta di essere parte della fiammante redazione di una nuova rivista al femminile, una borsa di studio a Boston, per studiare telematica e una borsa di studio completa a New York offertami dal professore di teorie della comunicazione, per un Master in fotografia, che a dire il vero, oggi rimpiango un po'.
Avevo pochi mesi per decidermi, mille pensieri come farfalle impazzite nella mia testa e un libro di Laura Esquivel sul comodino intitolato "Como Agua para chocolate".
Chi di voi ha letto quel libro può immaginare l'effetto che ha avuto in me. Avevo già scoperto e amato la corrente letteraria del realismo magico attraverso Isabel Allende e Gabriel Garcìa Marquez, ma Como Agua para Chocolate era differente: tutto un romanzo magico-realista che girava intorno alla cucina e alle storie che avvenivano per gli effluvi magici di ogni piatto che Tita, la protagonista, preparava. Attraverso ogni pagina mi si apriva un mondo fantastico, seducente e incantato e scoprivo che c'era un altro modo completamente nuovo per me, di parlare di cibo attraverso la scrittura che mi rapiva e conquistava parola dopo parola.
Laura Esquivel e il suo personaggio Tita mi hanno fatto scoprire la mia vera vocazione, che giaceva latente da qualche parte da tanti anni: scrivere sul cibo e raccontare storie.
E fu così contro ogni pronostico, dopo qualche ricerca, che volai a Panama City per prendere la specialistica in "food journalism", era quello che volevo, senza dubbio fatto per me e che non avrei mai scoperto se non fosse stato per quel libro e par la maniera in cui fu scritto.
Da allora ho cominciato a scrivere storie legate ad una ricetta mia e la specializzazione mi ha dato i mezzi per scrivere articoli relazionati con il cibo e le ricette di altri. Sono felice, perchè oggi amo ciò che faccio e faccio ciò che amo. Grazie a quel libro che è capitato sul mio comodino nel momento perfetto, come se qualcuno me lo avesse mandato apposta. Se non è realismo magico, questo...
Sul realismo magico avrei fatto la mia tesi del Master in letteratura latinoamericana, se la Francia e poi il Marocco non fossero entrati nei miei programmi, come fresca brezza di mare che semplicemente ti porta via. Ed è in Francia che nasce poi Burro e Miele, il mio unico mezzo per continuare a scrivere e pubblicare le mie storie e le mie ricette.

A Laura e a Tita dedico questa torta profumata, fatta interamente a mano come Tita l'avrebbe preparata, niente mixer, niente impastatrice, solo una frusta a mano, una grattugia e l'antico mortaio per far polvere il cardamomo. Ogni bacca di cardamomo ha una forma totalmente diversa dalle altre e nasconde un segreto che solo uditi attenti potranno ascoltare. Le rose apportano la loro delicatezza e penetrante profumo che ha il potere magico di far innamorare.
Tutte le imperfezioni della stesura della glassa sono volute, quei segni di spatola che sembrano orme di ditate che hano portato via la ganache sono fatti apposta, potete credermi o pensare che agli spiriti che annidano nella mia cucina, sia piaciuta la ganache al cioccolato bianco e alla rosa e siano passati di lì.
Realismo magico in cucina.

Grazie, Laura.




Torta al cioccolato bianco e alle rose, profumata al cardamomo



Ingredienti per una torta di 23 cm:

4 uova
125 gr di zucchero semolato
75 gr di farina di riso*
30 gr di amido di mais*
20 gr di farina di tapioca*
50 gr di cioccolato bianco*
10 bacche di cardamomo
burro e farina di riso, per lo stampo

per la ganache:
300 gr di cioccolato bianco*
115 gr di burro*
6 cucchiai di panna fresca*
6 boccioli di rose secche
185 gr di zucchero a velo*
1 cucchiaino di acqua di rose
boccioli di rose secche, per decorare

*Se fate questa torta per un celiaco assicuratevi che questi prodotti siano listati nel prontuario dell'Associazione Italiana celiachia o abbiano la spiga barrata sulla confezione.




Si comincia aprendo le bacche di cardamomo, per inebriarsi del profumo ed estrarne i semini che poi si pestano nel mortaio fino a ridurli in polvere, perchè diano il meglio del loro aroma. Poi si gratta il cioccolato, con la grattugia, dal lato più piccolo, più fine possibile.
Con la frusta, si sbattono le uova con lo zucchero, energicamente e per molto tempo, fino ad avere un composto spumoso, quasi cremoso, sul quale si setacceranno le farine e le si amalgameranno delicatamente, con una spatola, in movimenti avvolgenti, quasi una carezza, dal basso verso l'alto. Alla fine si aggiugeranno il cardamomo e il cioccolato, con gli stessi movimenti. Si unge una teglia con il burro e la si infarina con la farina di riso, si versa il composto e si inforna in forno già caldo per venti, venticinque minuti, ma sapete che i tempi dipendono da ogni forno.
Per la ganache, è necessario far bollire un minutino la panna con le rose e lasciarle in infusione qualche ora, in modo che possano emanare i loro effluvi e che la panna possa catturarli. A bagno maria, ma senza che il recipiente tocchi l'acqua, si scioglie il cioccolato insieme al burro, si toglie dal fuoco e ci si versa la panna filtrata, un cucchiaino di acqua di rose pura e lo zucchero a velo. Bisogna poi far raffreddare la ganache, fino a che abbia una consistenza spalmabile.
La torta, ormai completamente raffreddata, si taglia a metà e si farcisce con parte della ganache di cioccolato bianco e rose, si rimette in forma e si ricopre totalmente di ganache, con una spatola di metallo. Il movimento della ganache sulla torta dev'essere circolare per i bordi, ma ondulatorio e quasi imperfetto sulla superficie. Non si vuole in questo caso una torta perfetta, ma alquanto rustica nel suo aspetto e imperfetta, perchè le rose intere e i loro petali che si sparpaglieranno sulla superficie come decorazione, daranno quel tocco unico e quasi magico ma reale a tutta la torta.



Con questa torta partecipo al contest di Stefania